La marcia di Sant'Egidio

Rastrellamento del Ghetto di Roma, non c’è futuro senza memoria

Tutto questo deve servire oggi a immaginare la pace per Gaza e in Terrasanta nel tempo dell’escalation, e ritrovare il senno, per una politica intelligente e umana verso profughi e immigrati, a vantaggio di tutti.

Editoriali - di Mario Marazziti

18 Ottobre 2023 alle 16:30

Condividi l'articolo

Rastrellamento del Ghetto di Roma, non c’è futuro senza memoria

Se ottant’anni vi sembran troppi. O troppo pochi? Dal 16 ottobre 1943, quando 1022 ebrei romani furono razziati tra l’alba e le 2 al Portico d’Ottavia e nelle strade vicino, e poi a Trastevere, a Monteverde, seguendo gli elenchi nelle mani delle SS stilati con precisione per le leggi razziste, fasciste, quelle della “difesa della razza” del 1938.

Altri mille sarebbero stati arrestati e deportati, quasi tutti su delazione degli altri italiani, per 5000 lire l’uno. Ne erano tornati vivi solo 16. Tra loro, una sola donna, Settimia Spizzichino. Un solo ragazzino, minorenne quella mattina piovosa, Sabatino Finzi. L’ultimo ad andarsene è stato Piero Terracina, una vita a raccontare. Ma da quattro anni non c’è più. “Povera carne innocente”, pregava così una “gentile”, una romana cristiana che si è trovata a vedere quello scempio.

Al Portico d’Ottavia, al termine della Marcia della Memoria che per la trentesima volta, per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, con la Comunità ebraica di Roma, ostinatamente, dice da Roma che “Non c’è futuro senza memoria”, c’erano sul palco anche Sami Modiano, ebreo di Rodi, 93 anni, e Tatiana Bucci, una delle due sorelline Bucci, di fiume, tra i pochissimi bambini ebrei a non essere stati deportati con la deportazione.

C’era tutto lo stato, il governo, con Tajani, su quel palco, nel primo pomeriggio piovoso dopo un’estate troppo calda. C’era il presidente Mattarella, che nell’accettare il suo primo settennato volle ricordare Stefano Gaj Taché, ucciso a due anni da un attacco terroristico palestinese a Roma: “un bambino italiano” e basta, senza aggettivi. Ma ucciso per quell’aggettivo-sostantivo, “ebreo”. Mentre altri 40 erano rimasti feriti nell’attentato del 9 ottobre 1982. Un brutto anno. Pochi mesi prima davanti al tempio maggiore di Roma, su Lungotevere, una manifestazione sindacale aveva lasciato una bara: antisemitismo e antisionismo, una gran confusione, ma alla fine si arriva sempre lì. Bambini e esseri umani che muoiono. C’era il presidente della Camera, non c’era La Russa, indisposto, c’era il sindaco di Roma, il presidente della Regione, c’erano deputati, senatori.

Ma soprattutto due, tremila romani, molti non ebrei, e c’erano i cartelli, su fondo nero, di Aushwitz-Birkenau, Buchenwald, Sobibòr, Bergen -Belzen. Molti nuovi europei, una parte musulmani, gente che sa cosa significa vivere ai margini e senza diritti, vicini agli ebrei, meglio di tanti ignoranti e razzisti che sembrano sdoganati, incoraggiati anche dalle “angherie per legge” verso profughi e immigrati. È il punto di arrivo di un lungo cammino. Per anni, nelle scuole superiori romane e poi in Italia erano stati quei cattolici – che da qualche anno avevano preso il nome dall’ex-monastero di Sant’Egidio, e vicino al quale, a Trastevere, erano stati portati via molti in quella mattina del ’43 – a promuovere assemblee in tutte le scuole e nei quartieri, e a far rinascere la memoria: le invenzioni del nazismo, i camion asfissianti che ammazzavano durante il tragitto, il cyclon B. Con loro c’era stato il rabbino Elio Toaff, avanguardia coraggiosa di una comunità che è arrivata pian piano, negli anni successivi.

Nel 1983 avevo raccolto la memoria di Sabatino Finzi, che era tornato da Buchenwald, unico della sua famiglia, numero 158556, sopravvissuto per sbaglio, quando hanno spostato tutti da Auschwitz dal gennaio 1945 e lui è rimasto indietro: gli altri morti, lui vivo. Era tornato che pesava 29 chili, a 18 anni. E subito è quasi morto dopo avere ingoiato il primo cibo trovato, mentre altri lo vomitavano, e altri ancora mangiavano, per la fame, quel vomito. Era uno “eccessivo”, vitalista, Sabatino, che raccoglieva e vendeva su larga scala rottami di ferro, i contatori della luce e del gas dismessi. Doveva dimostrare che era uomo, dopo essere stato “non-più-uomo”. Raccontava che appena arrivati ad Auschwitz un neonato, nato nel viaggio, con altri neonati, era stato preso dai nazisti, messo in un lenzuolo, e sfracellato con gli altri contro un camion. Poi 800 sono finiti subito ai crematori.

L’ha ricordato il rabbino capo Riccardo Di Segni, dopo il messaggio di Liliana Segre: “E’ un dovere onorare la memoria di tanti romani, di tutti i ceti e di tutte le fedi, che si impegnarono a nascondere ed aiutare gli ebrei. Anche molte chiese e conventi, anche i miei nonni, Alfredo e Bianca Foligno, sfuggiti di un soffio alla retata”. E ha concluso Andrea Riccardi: “E’ un evento che, passando da una generazione all’altra, ammonisce sui rischi dell’antisemitismo, sul nazismo e sul fascismo, che collaborò alla Shoah italiana, sui risorgenti odi razziali e xenofobi, sulla predicazione del disprezzo”: così siamo ai nostri giorni. Tutto questo deve servire oggi a immaginare la pace per Gaza e in Terrasanta nel tempo dell’escalation, e ritrovare il senno, per una politica intelligente e umana verso profughi e immigrati, a vantaggio di tutti.

18 Ottobre 2023

Condividi l'articolo