Il conflitto Israele-Palestina
Perché Hamas ha attaccato e quale è la soluzione al conflitto: l’analisi di Dario Fabbri
«Hamas ha approfittato del momento di impasse interno di Israele, che era concentrato più sulla Cisgiordania che su Gaza. C’è stata una eccessiva sicurezza degli apparati di intelligence»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Gli errori del passato hanno portato ad una situazione senza via di uscita. Una via insanguinata. Errori che chiamano in causa tutti, nessuno escluso: le leadership d’Israele e Palestina, i Paesi arabi e le potenze regionali musulmane che hanno da sempre strumentalizzato la causa palestinese. E la latitante Europa. L’Unità ne discute con Dario Fabbri, direttore di Domino, tra i più autorevoli analisti italiani di politica estera e geopolitica.
Quanto allo spiazzamento militare e d’intelligence d’Israele, così riflette il direttore di Domino: “Gli israeliani si sono affidati ad alcuni movimenti. Innanzitutto l’accordo che hanno raggiunto con Hamas sui migranti economici che sono quelli che fanno avanti e indietro attraverso la frontiera. E quindi pensavano che Hamas fosse occupato dalle condizioni economiche della Striscia di Gaza e dai suoi lavoratori. Qualche tempo fa gli Stati Uniti e l’Iran hanno raggiunto un accordo di scambio di prigionieri e di scongelamento da parte americana di sei miliardi di dollari consegnati al Qatar nella gestione di Hamas e che dovrebbero arrivare alla popolazione. Per queste ragioni da alcune settimane Israele era preso da scontri in Cisgiordania e ha spostato una parte dei suoi mezzi sulla Cisgiordania. Ed era tranquillo, forse troppo. Ma comunque temeva meno un attacco proveniente da sud. Gli errori di intelligence, anche se sono drammatici, sono purtroppo comuni”.
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Quanto al ruolo degli Stati Uniti, Fabbri annota: “Il legame tra Usa e Israele non è stato mai in discussione, anche se Biden ha un rapporto complesso con Netanyahu. Gli Usa sostengono e sosterranno il legittimo diritto d’Israele a reagire al suo “11 Settembre”, al tempo stesso cercherà di contenere la profondità di questa reazione per timore che un eccesso possa avere un effetto destabilizzante per l’intera regione, facendo precipitare il Medio Oriente in una situazione bellica che richiederebbe il ritorno massiccio degli americani in una regione dalla quale si sono andati via via disimpegnando”.
Quali chiavi di lettura geopolitiche della guerra che sta insanguinando Israele e la Striscia di Gaza?
C’è più di una lettura. Anzitutto quella del quadro regionale. È evidente che Hamas interviene adesso, con questo attacco contro Israele, per scongiurare la normalizzazione, che nei fatti già esiste ma che potrebbe essere declinata definitivamente, tra Arabia Saudita e Israele. Questa lascerebbe fuori non solo Hamas ma soprattutto l’Iran, che di Hamas come peraltro di Hezbollah libanese, è il patron politico e militare. L’Iran si troverebbe isolato più di quanto lo sia già adesso, con un fronte cospicuo di monarchie del Golfo vicine ad Israele, altri Paesi arabi, più o meno troppo deboli o disinteressati, trovandosi a fianco lo Stato sgangherato della Siria, Hamas, Hezbollah e poco altro. Questa è la chiava regionale dell’attacco di Hamas. Poi c’è la ragione interna allo spazio israelo-palestinese.
Andiamo con ordine in questo sforzo di comprensione. Israele.
Israele sta attraversando una fase di netto e tumultuoso cambiamento della sua società, dimostrato dallo stesso governo Netanyahu, dai partiti che lo sostengono. L’Israele degli albori, quello della sua fondazione del ’48, l’Israele laico, all’epoca mediamente socialista, askenazita, quindi originario, nella sua classe dirigente e anche in gran parte della popolazione, dell’Europa centro-orientale, quell’Israele è demograficamente in netta diminuzione. Oggi Israele vede una società molto diversa, nella quale sono cresciute nettamente le componenti orientali, non europee, non occidentali, non laiche come impostazione, che poi si riflettono nei vari ministri e partiti che compongono l’attuale governo Netanyahu, e che in molti accenti vorrebbero archiviare lo Stato laico, per come lo conosciamo. E a questi si sono allacciati gli haredim, che sono in larga parte di origine askenazita ma assolutamente agli antipodi dei principi fondanti del sionismo. Ultraortodossi, religiosi, non credono per niente alla divisione tra stato e religione. Tutto questo, come abbiamo visto negli ultimi mesi, ha generato una spaccatura gigantesca nella società israeliana, tra l’anima originaria, laica per come la conosciamo, e il resto. Su Domino lo scorso aprile scrivemmo che questa divisione aumentava nettamente la possibilità di un attacco a Israele.
Tutto ciò come ha impattato con la guerra?
Pare evidente che Hamas abbia voluto approfittare di questo momento di forte impasse interno ad Israele per colpirlo al cuore. A questo va aggiunto una eccessiva sicurezza degli apparati israeliani, convinti che di fatto la questione di Hamas fosse sopita, perché Hamas ha bisogno di soldi, perché il suo patron iraniano come peraltro il Qatar gliene danno meno. Hamas aveva negoziato da poco proprio con Israele un accordo riguardante i lavoratori che da Gaza entrano nello Stato ebraico. E poi c’era stato l’accordo tra Stati Uniti e Iran, il principale patron di Hamas. Tutto questo segnalava ad Israele che forse i problemi principali fossero in Cisgiordania più che a Gaza. E anche questo ha provocato la sorpresa clamorosa di questi giorni.
E nel campo palestinese. Hamas ha liquidato ciò che restava dell’Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas?
Hamas ormai si propone come unico alfiere della causa palestinese. E come se dicesse a Israele e al mondo, a cominciare da quello arabo e musulmano, chi governa la Cisgiordania non conta più. Contiamo solo noi, perché l’Autorità Palestinese è inerme, non soltanto non può niente ma addirittura dipende da Israele, per moltissime ragioni, economiche, il controllo del territorio, i coloni e via elencando.
C’è chi connette questo nuovo fronte di guerra in qualche modo connesso a quello russo-ucraino.
Alla Russia certamente non dispiace l’apertura di un altro focolaio di conflitto. Mosca si sta proponendo come paladina dell’ “altro mondo”. In questi giorni di guerra, il ministro degli Esteri russo, Lavrov, ha ribadito più volte che per disinnescare la crisi c’è bisogno di uno Stato palestinese, avendo su questo il suggello dello stesso Putin. D’altro canto, sappiamo bene che la Russia non ha affatto cattivi rapporti con il governo israeliano. Israele è l’unico Paese russofono fuori dallo spazio ex sovietico. La Russia fa molti ruoli in commedia, come spesso le capita. Ma vedere un rapporto diretto tra questa guerra e l’Ucraina a me pare una forzatura.
In questo scenario che definire perturbato è un eufemismo, che ruolo gioca, se ne gioca uno, l’Europa?
In questo momento, nessuno. Come è capitato all’inizio della guerra in Ucraina, questo sì è un parallelo che ci può stare, c’è grande unità tra i governi europei nel condannare, ci mancherebbe, l’attacco di Hamas contro cittadini israeliani. È bene ricordare sempre che l’attacco compiuto, che è costato la vita a più di 1200 israeliani e il ferimento di altre migliaia, non è stato l’attacco contro Israele e il suo esercito, ma contro cittadini inermi, tra i quali ragazze, bambini, perfino neonati, come abbiamo visto nelle immagini strazianti di queste ore. Anche sull’onda emotiva di questi attacchi, tutti i governi occidentali, quindi anche quelli europei, si sono schierati per il diritto d’Israele a difendersi. Vorrò vedere tra qualche settimana, un po’ come è avvenuto per l’Ucraina, se la guerra tra Israele e Hamas, si prolungasse, se non cominciassero a mostrarsi dei distinguo, come è successo nella guerra d’Ucraina. Resta il fatto che il ruolo dell’Europa è quello di sostegno diplomatico d’Israele, di partecipazione emotiva, e poco altro. Israele è un Paese autosufficiente sul piano militare che beneficia soprattutto del sostegno degli Stati Uniti d’America.
Esiste ancora uno spazio per quella soluzione di pace tanto spesso evocata e mai praticata dei “due Stati”?
Dovrebbe esistere, in linea di principio, ma al momento davvero non si vede. È rimasta sopita, nascosta per tantissime ragioni. La prima, perché i grandi Paesi arabi e quelli non arabi della regione, Iran e Turchia, hanno sempre utilizzato la questione palestinese senza crederci, in maniera del tutto strumentale, per accreditarsi e poi disinteressandosene al momento di muovere in maniera concreta e condivisa verso la realizzazione della soluzione a due Stati. In più, questa soluzione è rimasta sopita, nascosta, anche perché in Occidente, dobbiamo essere onesti intellettualmente, l’interesse rispetto a 20-30 anni fa è profondamente sceso. Sulla questione in sé, sulla soluzione a due Stati, c’è meno attenzione, c’è una minore partecipazione anche dell’opinione pubblica occidentale e non solo. In più, anche Israele ha cambiato il proprio atteggiamento rispetto a trent’anni fa quando, nell’agosto ’93, furono firmati sul prato della Casa Bianca gli accordi di Oslo-Washington con la storica stretta di mano tra Rabin e Arafat. Formalmente Israele resta favorevole alla soluzione a due Stati, ma è chiaro che negli ultimi anni Israele si è mostrato più sicuro nell’avanzare gli insediamenti, più sicuro nel gestire la situazione giorno per giorno senza immaginare una soluzione di lungo periodo. Tutto ciò lascia appesa quella soluzione di cui non si parla più e ho la sensazione che non tornerà alla ribalta almeno nell’immediato.
Se non è la soluzione a due Stati, e neanche quella di uno Stato binazionale israeliano. È una via senza uscita?
Apparentemente sì. Non si vedono vie di uscita. E poi vanno inserite altre incognite in questo conflitto…
Vale a dire?
Si potrebbero aprire altri fronti. Già si sono registrati scontri nel Nord tra l’esercito israeliano e gli Hezbollah, al confine sud del Libano. In quella zona frontaliera vive gran parte della popolazione arabo-israeliana, che a maggio del 2021, negli ultimi scontri davvero importanti, per la prima volta aveva assunto una posizione di vicinanza ai palestinesi di Cisgiordania. Se si aprissero questi ulteriori fronti, uno interno a Israele, e quello con Hezbollah, la crisi si approfondirebbe e diventerebbe ancora più pericolosa di quanto già sia in questo momento, e di soluzioni se ne vedrebbero ancora meno.
Cosa vuol dire per il direttore di Domino, essere davvero amici d’Israele?
È una domanda molto delicata e complicata. In questo momento, garantire a Israele il diritto di difendersi, senza se e senza ma. Ciò che ha subito non può essere condonabile. Israele necessita adesso di distruggere la rete militare, fatta di arsenali, munizioni, tunnel di Hamas, e non sottostare al tremendo ricatto degli ostaggi. Questo nell’immediato. Nel medio periodo, immaginare una soluzione che vada oltre la contingenza, che metta dentro per davvero la necessità dei due Stati, che consideri la questione demografica, quella economica dei due principali spazi palestinesi, Gaza e Cisgiordania, anche con un collegamento tra queste due entità territoriali.