Il mercato del lavoro

Cosa prevede il jobs act e perché non ha funzionato: per evitare i licenziamenti illegittimi va cambiato

Numeri alla mano, la legge bandiera di Renzi non ha funzionato. E la Consulta ha bocciato gli automatismi dei risarcimenti e le cacciate “facili”

Politica - di Cesare Damiano - 11 Ottobre 2023

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Cosa prevede il jobs act e perché non ha funzionato: per evitare i licenziamenti illegittimi va cambiato

La Direzione del Pd di giovedì scorso si è conclusa con un voto unanime sulla relazione di Elly Schlein: buon segno. Una linea di mobilitazione e di contenuti è stata tracciata. L’11 novembre è prevista una manifestazione nazionale del Partito le cui priorità sono la difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni e la sanità. Di recente si è anche riaperto un dibattito sul tema del Jobs Act, a seguito di una dichiarazione della stessa segretaria circa l’appoggio del Partito Democratico a un’eventuale iniziativa referendaria, ventilata in agosto dalla Cgil, per l’abolizione di quella normativa.

L’argomento è stato al momento accantonato, ma, al di là di questo episodio che ha generato una discussione piuttosto accesa, a me interessa chiarire perché il tema del Jobs Act andrebbe, con una scelta autonoma del Pd, nuovamente messo all’ordine del giorno. Al tempo del suo varo, tra il 2014 e il 2015, sono stato, come presidente della commissione Lavoro della Camera, il relatore di quel provvedimento. Posso raccontare alcuni aneddoti che hanno caratterizzato quell’iter legislativo. Un percorso iniziato al Senato, il cui presidente della commissione Lavoro era, a quel tempo, Maurizio Sacconi, del Popolo delle Libertà. Renzi, allora presidente del Consiglio, mi disse che sul testo che arrivava dal Senato avrebbe messo la fiducia. Gli risposi “se lo fai, non te la voto”.

La fiducia non fu posta e la discussione che si è sviluppata alla Camera, prima in Commissione e poi in aula, ha portato all’approvazione di 37 emendamenti al testo originale. Per onestà intellettuale devo dire che quelle modifi che non hanno cambiato la struttura fondamentale del testo di legge, anche se hanno apportato alcuni miglioramenti ad una proposta che, a mio avviso, aveva il difetto fondamentale di indebolire la tutela dei lavoratori sul tema dei licenziamenti illegittimi. Va anche ricordato che, come di consueto, la Commissione accompagnò la proposta con una Relazione finale nella quale furono inseriti alcuni pareri vincolanti. Il primo suggeriva un principio di proporzionalità tra infrazione commessa dal lavoratore e sanzione comminata dall’azienda.

Il secondo, per i casi di illegittimità del licenziamento, richiedeva la reintegrazione del lavoratore. Pareri che furono, purtroppo, completamente ignorati dal governo. Vorrei, oggi, dare un contributo ragionato per un intervento su questo tema, assai complesso, rifuggendo da una logica di confronto tra opposti estremismi. Non trovo produttivo che ci si divida tra chi appoggia in modo incondizionato l’esito legislativo sia del governo Monti – che aveva varato una propria normativa sul lavoro – che del governo Renzi sul tema della tutela dei lavoratori in caso di licenziamento illegittimo, né condivido una scelta di pura cancellazione, di natura astratta e non improntata a una valutazione di merito. Ritengo che la sinistra abbia commesso dei seri errori sull’argomento. Al tempo del governo Monti, sostenuto anche dal Pd, il tema fu affrontato dalla legge Fornero che indebolì l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori del 1970.

Parimenti, al tempo del governo Renzi, con il Jobs Act. Ritengo che, sicuramente, queste scelte abbiano contribuito a consolidare tra i lavoratori e, soprattutto, tra gli operai, l’idea di un Partito di “sinistra” sempre più lontano dalle loro esigenze e dalla loro tutela. Non è un caso che, oggi, stando ad alcuni sondaggi riferiti alle elezioni politiche, il Partito Democratico risulti al quarto posto nelle preferenze dei lavoratori, dopo Fratelli d’Italia, Lega e M5s . Anche al tempo del governo Draghi, ad esempio, per quanto riguarda l’incentivo per l’occupazione nel Mezzogiorno, da parte di quell’Esecutivo fu scelta una strada che andava a vantaggio sia del lavoro a tempo indeterminato che di quello a tempo determinato. Con risultati che, dicono le statistiche dell’epoca, realizzarono soltanto il 15% di assunzioni stabili. È evidente che scelte ondivaghe, che non tracciano una linea di marcia coerente, non sono comprese dai lavoratori che pretendiamo di rappresentare.

Ricordo che al tempo del governo Prodi II, il mantra sul quale abbiamo basato tutta la legislazione era molto semplice: incentivare esclusivamente il lavoro a tempo indeterminato e far costare di più la flessibilità. Idea che, purtroppo, nel tempo si è smarrita. Quando parliamo del Jobs Act dobbiamo ricordare che esso è stata accompagnato da ben otto deleghe: in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro, politiche attive, semplificazione delle procedure e degli adempimenti, riordino delle forme contrattuali e dell’attività ispettiva, tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro. Con un vincolo: quello di non comportare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Un vero ostacolo insormontabile che ci ricorda il famoso detto: “Fare le nozze con i fichi secchi”.

È chiaro che, mentre c’è stato un intervento puntuale per l’abbassamento delle tutele in caso di licenziamento illegittimo, per quanto riguarda materie come quella delle politiche attive, l’Italia ha continuato a segnare un’endemica debolezza nel conciliare domanda e offerta di lavoro. Non risolta né dal Jobs Act né dalle legislazioni successive. Da qui, una sproporzione degli interventi, perlopiù a svantaggio dei lavoratori. A mio avviso, per affrontare il problema, occorre circoscrivere gli argomenti e non parlare genericamente di tutti i temi trattati dal Jobs Act. Per quel che mi riguarda, vorrei focalizzare l’attenzione sul tema dei licenziamenti. Ma, facendolo, si deve necessariamente collegare il tema dell’abbassamento della tutela, nel caso dei licenziamenti illegittimi, a quello del presunto e corrispondente aumento dell’occupazione che ha giustificato, nelle intenzioni di Renzi, l’adozione di tale normativa.

Quindi, la domanda che va fatta è se il Jobs Act ha funzionato, come affermano i suoi sostenitori, nella crescita delle assunzioni. Anche su questo argomento ricordo di aver tentato di dare dei suggerimenti all’Esecutivo dell’epoca, che consistevano nel fatto di non ritenere opportuno un incentivo di importo eccezionalmente elevato, ma per un periodo breve. Continuo a pensare che sarebbe stato preferibile avere un incentivo anche di importo relativamente più limitato, ma strutturale o, almeno, di lungo periodo. Articoliamo il punto. Con il varo della legge di Bilancio del 2015, il Jobs Act, per favorire le assunzioni a tempo indeterminato (da notare che è improbabile che un’occupazione si possa definire a tempo indeterminato se è accompagnata dalla facilità di licenziamento) prevedeva un incentivo di 8.060 euro per ogni nuovo assunto per un periodo di tre anni.

Un totale di oltre 24mila euro di risparmio fiscale per il datore di lavoro per ogni occupato in più. Ma nel 2016 e nel 2017 quell’incentivo è precipitato a 3.250 euro, sempre per un periodo di tre anni. Quali sono le rilevazioni statistiche sull’andamento dell’occupazione a tempo indeterminato in quei tre anni? Lo si può scoprire calcolando la differenza tra assunzioni e cessazioni, vale a dire il cosiddetto saldo occupazionale. Ebbene, adottando un arco temporale omogeneo, vale a dire i primi tre mesi di ogni anno, noi abbiamo, secondo i dati dell’Inps: nel 2015, un saldo positivo di 214mila occupati a tempo indeterminato; nel 2016, il saldo scende a 41mila; nel 2017 a 17mila. È evidente che l’alto incentivo ha provocato una sorta di “effetto metadone” con assunzioni stabili e con la trasformazione dei rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato. Un effetto “alta marea” che si è rapidamente spento in ragione dell’abbassamento degli incentivi negli anni successivi al primo.

Quindi, non è vero che l’effetto sull’occupazione sia stato strategicamente positivo. C’è stata un’impennata legata all’incentivo alto che ha mostrato la debolezza, nel lungo periodo, di quella normativa. Venendo al tema dei licenziamenti, che riguarda sia la legge Fornero del 2012 sia il Jobs Act, ci sono state ben cinque sentenze della Corte Costituzionale a partire dal 2018, delle quali vogliamo esaminarne tre che hanno particolare rilievo. La prima è la 194/2018. Quella sentenza colpisce al cuore il meccanismo del Jobs Act. Essa ritiene non costituzionale un automatismo di risarcimento legato esclusivamente all’anzianità di servizio. Un computo di indennizzo che va da un minimo di due mesi a un massimo di 24, portato, in tempi più recenti, a 36 mesi.

Licenziamento illegittimo con un anno di anzianità = due mesi di risarcimento, e via moltiplicando La Consulta ha eccepito che non si può rendere uguale ciò che può essere anche diverso e che l’entità del risarcimento deve passare necessariamente da una valutazione del giudice. Il quale deve tenere conto non soltanto dell’anzianità di servizio, ma anche delle dimensioni dell’impresa, del carattere del licenziamento e della posizione soggettiva del lavoratore, rispettando il tetto dei 36 mesi. Argomenti razionalmente condivisibili che hanno azzoppato le cosiddette tutele crescenti, fi ore all’occhiello della riforma. Una seconda sentenza è la 59/2021. Essa è riferita alla legge Fornero, la 92/2012, nella quale, di fronte alla cosiddetta “manifesta insussistenza” della motivazione del licenziamento, da ritenersi, perciò, illegittimo, viene data al giudice la facoltà di scegliere tra un indennizzo monetario e la reintegrazione nel posto di lavoro.

La sentenza definisce incostituzionale quest’ultima parte del dispositivo. Viene sancita, quindi, non la facoltà, ma l’obbligo della reintegrazione. Tenendo conto di queste osservazioni credo che convenga, nel momento in cui giustamente si volesse affrontare il tema dei licenziamenti illegittimi, non partire da una generica affermazione di cancellazione del Jobs Act, ma dall’affrontare, in modo più mirato, il punto sul quale intervenire avvalendosi delle sentenze sopra citate che ci aiutano ad indirizzare la correzione. Non verso un semplice ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, considerato che, nell’ultima fase, soltanto una minoranza di lavoratori poteva fruire della copertura del dispositivo risalente al 1970 a causa della precarizzazione del mercato del lavoro.

Va preso atto che, sia la legge Fornero, sia il Jobs Act, hanno indebolito eccessivamente la tutela del lavoratore nel caso di licenziamenti illegittimi. Questo è il punto. Convinzione rafforzata anche da un’altra sentenza, la 183/2022, nella quale la Corte ha indicato come indifferibile la riforma della disciplina dei licenziamenti: “materia di importanza essenziale per la sua connessione con i diritti della persona del lavoratore e per le sue ripercussioni sul sistema economico complessivo”. In sostanza, penso che sia utile, da parte del PD, concentrare la sua attenzione sul tema del salario minimo, ma anche riprendere l’obiettivo di una correzione del Jobs Act e della legge Fornero sui licenziamenti al fine di intervenire in una materia così disordinata e così centrale per il diritto del lavoro. Del resto, si tratterebbe semplicemente di rispondere alle sollecitazioni della Corte Costituzionale che ha affermato che il protrarsi dell’inerzia legislativa su questa materia “non sarebbe tollerabile”.

11 Ottobre 2023

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