La corsa alle europee
Il piano di Schlein per sfidare la Meloni: chiamare Landini per unire la sinistra
La convergenza del Nazareno sulle posizioni del leader Cgil, deciso a raccogliere firme contro il Jobs act, fa parte di una strategia che mira a unire anche AvS e M5s in una campagna sociale per sfidare il governo
Politica - di David Romoli
Renzi non si muove mai a caso. Se c’è un difetto che nessuno gli ha mai potuto rinfacciare è di non essere abile nei giochi politici o di mancare di tempismo. Ieri l’ex premier ha presentato la lista con cui correrà alle europee, mettendosi in gioco di persona come candidato: Il Centro. Obiettivo dichiarato: “Prendere voti sia a Fi che al Pd”.
È lecito supporre che punti sulla seconda preda, il suo ex partito, più che sulla prima. È probabile che una parte del residuo elettorato azzurro viva con fastidio l’alleanza in posizione subalterna con FdI e con la Lega. Però non è certo nelle elezioni europee, quando si vota con il proporzionale, che quel disagio può arrivare al punto di rottura. Al contrario è facile che l’elettorato forzista faccia blocco intorno al nuovo leader, Tajani, nella speranza di modificare così i rapporti di forza all’interno della coalizione.
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Per quanto riguarda il Pd il discorso è diverso. Per il Pd l’autunno che si avvicina è tanto un’opportunità quanto un rischio. Negli ultimi mesi, a partire dalla campagna politicamente vincente sul salario minimo, la segretaria ha spostato molto bruscamente la barra del suo partito. Si è concentrata sui diritti sociali, in passato citati dal Pd quasi solo per dovere d’ufficio. Si è avvicinata ogni settimana di più alla Cgil, cercando di recuperare rapporti andati perduti nel corso degli anni. È vero che sinora, Elly Schlein si è limitata per lo più a enunciare slogan, ma anche quelli in politica hanno il loro peso.
Il braccio di ferro sul salario minimo, poi, non è solo uno slogan, la convergenza con la Cgil è un dato politico reale e l’uscita a favore del referendum della Cgil contro il Jobs Act rappresenta un ulteriore e deciso passo in quella direzione. La sterzata “sociale”, infine, rende molto più facile l’incontro con il M5s di Conte e infatti nel corso dell’estate i due, dalla distanza iniziale, si sono avvicinati sempre di più, sotto l’ombrello di Landini che sembra essere il vero regista e mallevadore dell’operazione. La svolta è ancora solo dichiarata e promessa, dovrebbe prendere corpo nel corso di un autunno che la leader del Pd si augura il più caldo possibile. Ma proprio quella ventilata svolta ha infiammato nel partito un dissenso che, per la prima volta da quando Elly è segretaria, non si limita più a criticare “il metodo”, cioè la mancanza di collegialità nel partito, ma anche “il merito”, cioè appunto la strategia che va verso un’asse Landini-Conte-Schlein.
L’occasione è stata proprio la dichiarazione sul referendum contro il Jobs Act. Anche molti dirigenti della maggioranza hanno storto il naso. Alfieri, senza mezzi termini, ha chiarito che il Jobs Act è una legge delega e cancellarlo significherebbe eliminare anche quanto ha di buono, non solo le norme che favoriscono il precariato. Tutti hanno ricordato che a votare la legge di Renzi era stato quasi tutto il partito, inclusi moltissimi che oggi stanno con Schlein. Ma dietro le argomentazioni concrete trapela in modo molto evidente un malessere politico: la sensazione che il Pd stia abbandonando la propria “vocazione” di partito di governo per imboccare un percorso modellato su quello di Corbyn in Uk o di Melenchon in Francia.
Una strategia che può anche portare voti ma renderà impossibile, secondo i critici, tornare al governo. Senza contare che, con un orizzonte di questo tipo, l’egemonia nella coalizione sarebbe esercitata, indipendentemente dal numero dei voti, più da Conte che dalla leader del Pd e soprattutto dal segretario della Cgil. Forse sono solo fantasie, ma è un fatto che nelle ultime settimane, in privato, siano sempre più numerosi gli esponenti del Pd che temono una candidatura a premier di Landini nelle prossime elezioni politiche, essendo il segretario della Cgil il garante quasi naturale di una coalizione Pd-M5S-Avs.
Renzi scommette che queste tensioni verranno potenziate dalle tensioni sociali dell’autunno. È infatti inevitabile che una mobilitazione reale, non solo fatta di dichiarazioni in tv o sui social, spinga nella direzione che i moderati del Pd, inclusi quelli “schleiniani” vogliono evitare. La manovra, del resto, è ispirata proprio da quella decisione di mettere la difesa dei conti pubblici al primo posto che il Pd ha in fondo sempre sostenuto: è una manovra forse più “montiana” che “draghiana” ma certo non “populista”.
Così se Conte non esita nell’attaccare “l’austerità” del governo, il Pd, col responsabile dell’Economia Misiani, deve limitarsi a reclamare “un diverso uso delle risorse” fingendo di non sapere che il problema è proprio la quasi totale assenza di risorse. Su tutto questo scommette Renzi e non è affatto detto che il disagio del Pd finisca per portargli davvero voti. Ma che quel disagio ci sia e sia destinato a gonfiarsi nel corso dell’autunno è invece certo.