La (non) commemorazione
Governo Meloni senza vergogna: non commemora i morti di Lampedusa
Sarebbe troppo chiedere al governo di manifestare la vergogna del Paese perché non c’era nessuno, dieci anni fa, a salvarli. Non ha provato nemmeno la vergogna di non esserci oggi, per ricordarli.
Cronaca - di Iuri Maria Prado
Era oscenamente opulento, orrendamente grasso di numeri lo scempio che si consumava esattamente dieci anni fa a un tiro di sasso dalla costa di Lampedusa. I cadaveri non erano recuperati a decine, ma a mucchi di centinaia: cataste, montagne di morti che i soccorsi a cose fatte, e cioè a strage avvenuta, per ore e ore scomponevano e ridistribuivano in uno sterminato accampamento di sacchi di plastica nell’attesa della residenza finale, le bare interrate un po’ dovunque in Sicilia perché dieci cimiteri non bastavano ad accoglierle tutte.
Erano perlopiù eritrei ed etiopi, ed erano partiti da un molo libico: erano più di cinquecento, con molte donne e molti bambini, e ne sono morti poco meno di quattrocento. Una cinquantina ne ha salvati un pescatore, tirandoli su uno a uno, quelli che riusciva: perché molti, anche se in acqua da chissà quanto, erano ancora ricoperti di gasolio e sfuggivano alla presa. Poi i dispersi, non si sa bene quanti. Il governo ha deciso di non impegnare la propria presenza alla commemorazione di quell’immane tragedia. Ha deciso, questa volta, di non metterci la faccia: ma in questo modo ce l’ha rimessa irrecuperabilmente. Non dubitiamo del fatto che la presidente del Consiglio e i suoi più eminenti ministri fossero distratti da appuntamenti e adempimenti prioritari, d’importanza soverchiante rispetto a quella trascurabile ricorrenza: magari un comizio o una conferenza stampa per denunciare che l’Italia è pugnalata alla schiena dai cospiratori della sostituzione etnica.
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Ma la presenza almeno simbolica di un profilo governativo nel giorno di questo tetro anniversario, anche solo per una fotografia con un mazzo di fiori, avrebbe dato il segno che quando si discute di immigrazione non c’è spazio solo per i decreti incostituzionali della discriminazione sicuritaria ma anche per qualche minuto di omaggio alla memoria degli uomini, delle donne e dei bambini crepati a centinaia nel tentativo di invaderci. È probabile che un saluto del governo avrebbe reso evidente – e imbarazzante – l’urgenza di un dovere che dura inadempiuto da allora, da quel 3 ottobre di dieci anni fa e anche da prima, e che non ha nulla a che fare con i problemi – certamente esistenti – di gestione e collocazione della gente che riesce a sbarcare: il dovere prioritario (tutto il resto viene dopo) di salvare questa gente.
Perché precisamente a questo dovere ci si sottrae quando, neppure troppo subdolamente, si lascia intendere che i migranti affogano perché si imbarcano quando non dovrebbero, che muoiono perché pretendono di arrivare qui senza averne diritto, che a ucciderli è la mancanza di scrupoli degli scafisti e che arrestati questi si salvano quelli. Come se le imperizie metereologiche di quelli che si mettono in mare non per diporto, ma per salvarsi la vita o per cercarne una migliore, dovessero essere retribuite con l’affievolimento del dovere di soccorrerli. Come se la mancanza dei requisiti per restare dovesse essere sanzionata con la negazione del diritto di arrivare sopravvivendo.
Come se il preteso contributo sicario dei trafficanti fosse, anziché un motivo supplementare di soccorso, l’espediente assolutorio di oggi puntuale inerzia, naturalmente nell’attesa che produca i suoi frutti la guerra agli scafisti che il governo ha promesso di scatenare da Palazzo Chigi alle spiagge di Mompracem. Sarebbe troppo chiedere al governo di manifestare la vergogna del Paese perché non c’era nessuno, dieci anni fa, a salvarli. Non ha provato nemmeno la vergogna di non esserci oggi, per ricordarli.