L'intervista

“L’Europa fa i piani, ma l’Africa vuole essere padrona del proprio destino”, parla Mario Giro

Il piano Mattei? «Prima di fare piani gli europei dovrebbero chiedere agli africani quali sono le loro priorità».

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

13 Settembre 2023 alle 15:00 - Ultimo agg. 13 Settembre 2023 alle 15:18

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“L’Europa fa i piani, ma l’Africa vuole essere padrona del proprio destino”, parla Mario Giro

Mario Giro, già Vice ministro degli Esteri con delega alla Cooperazione internazionale nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, conosce l’Africa come pochi altri in Italia e in Europa. Una conoscenza e frequentazione che risale ai tempi della Comunità di Sant’Egidio, di cui Giro è stato tra i “decani”, assieme a Marco Impagliazzo, Mario Marazziti, Andrea Riccardi. Sull’Africa è autore di numerosi saggi. L’Africa martoriata da guerre, cataclismi – il devastante terremoto in Marocco , il ciclone che ha sconvolto la Cirenaica– e tragedie umanitarie. Ma anche, l’Africa ricca, non solo di materie prime, che investe sul futuro. O almeno ci prova.

Stati falliti, golpe a ripetizione. Dal Nordafrica al Sahel. Africa addio per l’Europa?
Con una battuta direi: Africa addio per tutti. La cosa che emerge da questa fase storica è che l’Africa ormai decide da sola. Non sempre bene, ma lo fa da sola. Le sue élite –tra le quali i militari- non sentono più il bisogno di rapportarsi a qualche potere esterno (ex coloniale o di altro tipo) ma vogliono essere protagoniste del proprio destino. Questo mutamento è disordinatamente in atto e rappresenta la conseguenza della globalizzazione. Nel mondo plurale dello scambio e della competitività globale, tutti fanno i propri interessi e l’Africa non vuole essere da meno. Basta pensare che gli africani abbiano bisogno di aiuto per trovare una propria identità (culturale, politica o di sviluppo). Qualche anno fa uscì un libro dal titolo significativo: E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?. Non significa rifiutare il benessere ma rifiutare il modello di sviluppo a cui è stata condannata da troppo tempo da falsi amici, tra cui ovviamente le ex potenze coloniali e gli europei. Per troppi anni l’Africa è stata incasellata in uno schema rigido: aiuti e predazione di materie prime. Mai –davvero mai- i suoi partner hanno pensato che il continente dovesse produrre da sé, dovesse trasformare le proprie materie prime. Questo riguarda gli occidentali ma anche la Cina e gli altri. Per lo più si è considerata l’Africa come un giacimento a cielo aperto da cui portare via tutto ciò di cui si aveva bisogno. Anche le migrazioni, che oggi spaventano tanto gli europei, all’inizio sono state una forma di predazione: per anni molti paesi europei importavano quel poco di manodopera specializzata che si formava in Africa, impoverendo il continente sempre di più. Medici, infermieri, insegnanti, tecnici a basso costo: cosa c’era di meglio per professionisti formati oltretutto sui libri di testo europei? Ora ci lamentiamo perché arrivano in tanti: è l’altra faccia della medaglia dello sfruttamento predatorio.

L’Africa è diventata territorio di conquista per Cina e Russia?
Certamente la Cina dall’anno 2000 ha avuto un ruolo essenziale per rimettere l’attenzione sull’Africa. Grazie a Pechino l’Africa è tornata al centro degli interessi economici globali. Così tutti si sono buttati ad investire. Il problema è che si tratta di iniziative economiche basate sul settore privato che non hanno interessato la parte pubblica. Si è creata una nuova ricchezza privata ed un nuovo ceto medio del business, mentre gli stati e il welfare pubblico si immiserivano. In Africa oggi ci sono università, scuole superiori, cliniche tutte private, ma non esistono quasi più quelle pubbliche. Così la diseguaglianza è diventata più dura e più evidente. Nessun annunciato “piano Marshall” per il continente ha mai visto la luce. La Cina ha un grande merito: quello di avere riportato l’Africa al centro. Ma il modello economico della globalizzazione –anche dalla Cina condiviso- non è riuscito a colmare i ritardi e ad offrire le stesse possibilità per tutti. In un continente dall’impetuosa crescita demografica, ciò ha gravi conseguenze. Per la Russia il discorso è diverso: vende da sempre molte armi ma non ha la forza di rappresentare un modello. Lo è stata l’Urss una volta, ma la Russia di oggi è un’altra cosa.

Più che all’Occidente i leader africani sembrano guardare in altre direzioni. Ai Brics, ad esempio.
I Brics rappresentano l’idea di un’alternativa ad un modello che ha dimostrato di non funzionare: quello dell’iperliberismo privatizzatore. Ma per ora si tratta solo di un annuncio: la realtà è molto al di sotto delle aspettative. Anche se i Brics rappresentano un terzo del PIL globale, va detto che tale ricchezza la fanno commerciando con l’Occidente. Il tentativo di creare un sistema finanziario parallelo a quello occidentale è ancora una chimera. Ma la cosa più importante è che i Brics sono diversi e in lite tra loro: democrazie e stati autoritari, contese frontaliere, concorrenza economica, ecc. Ora vi sono new entry come l’Egitto, l’Etiopia, l’Iran e l’Arabia Saudita, l’Argentina e gli Emirati. Più paesi faranno parte dei Brics e più sarà difficile trovare l’unanimità. Ne sappiamo qualcosa noi europei con una Unione a 27. Nondimeno i Brics hanno un valore simbolico: dire a tutti che non esiste solo il G7, non è solo l’Occidente a dettare le regole. La Russia utilizza i Brics come megafono per la sua propaganda anti-coloniale, ma si tratta di un’ipocrisia per un paese che ha violato varie volte le frontiere di quelli frontalieri, per ultima l’Ucraina. Questo gli africani lo sanno bene. La Cina offre una sponda per costruire un quadro multilaterale alternativo ma continua ad aver bisogno dell’Occidente per la sua economia. Brasile e India hanno altri progetti, che includono la resilienza democratica e una reale svolta ambientale che ancora non è condivisa.

La presidente del Consiglio continua a evocare “piani Mattei” per l’Africa e ad esaltare, come modello virtuoso da estendere, il memorandum Europa-Tunisia. È quasi un anno dall’insediamento del governo Meloni. Che bilancio trae quanto alle politiche sull’immigrazione e il Mediterraneo?
Quando si basano sul solo contenimento e sulla strategia dell’emergenza, le politiche italiane ed europee sulle migrazioni sono destinate a fallire. Questo riguarda l’attuale governo ma anche quelli precedenti. Se i toni sono diversi, il sottofondo è lo stesso: basarsi sull’allarme sociale, aggrapparsi all’emergenza e cercare i contenere/respingere. Perché non può funzionare? Perché non tiene conto degli interessi africani. Con la Tunisia si spera di far leva sul bisogno di soldi ad uno stato in crisi, ma l’orgoglio dei tunisini non permetterà a tale manovra di avere successo. Si tratta di un governo autoritario da cui i tunisini stessi fuggono: trattarci non può offrire veri risultati. Prima di fare piani gli europei dovrebbero chiedere agli africani quali sono le loro priorità: non si può fare un piano senza gli interessati. Ogni anno giungono sul mercato del lavoro del continente decine di milioni di giovani: cosa offrire loro? Per ora l’emigrazione è la scelta più ragionevole, dal momento che le altre sono arruolarsi nelle milizie o con i jihadisti. I governi europei devono capire che non esistono pull factor: c’è in realtà un solo gigantesco push factor che consiste nella fine della speranza nel futuro dei propri paesi che l’attuale generazione africana ha maturato. Non è solo colpa nostra: c’è molta responsabilità delle classi dirigenti africane degli ultimi 30 anni che hanno fatto fallire i sogni dell’unità e delle indipendenze. Secondo me il pericolo più grave oggi è la debolezza degli stati che rischiano l’implosione. Quando questo avviene –come per la Libia- si apre altro spazio per flussi incontrollati.

Lei conosce come pochi l’Africa. Un racconto mainstream lo dipinge come un continente in perenne balia di generali golpisti, dittatori sanguinari e milizie jihadiste criminali.
Gli africani stanno cercando la loro strada nella globalizzazione, ed ora anche nello scontro tra Occidente e Russia. Com’è evidente si tratta di un tentativo molto difficile. Se le strutture multilaterali (come l’Onu) vanno in crisi, se la guerra diventa infinita, se la battaglia commerciale aumenta, l’Africa paga un prezzo perché è il continente più fragile. Ma non dobbiamo dimenticare che ha sempre dimostrato una fortissima resilienza: tratta degli schiavi, colonizzazione, perdita dell’identità culturale e linguistica, povertà, irrilevanza commerciale e politica, terreno di scontro di superpotenze ecc.: a tutto questo -e a tanto altro- l’Africa ha resistito mantenendosi in piedi. La narrazione sull’Africa dovrebbe essere più attenta alla complessità di un continente che elabora continuamente le proprie strategie per resistere ai tempi difficili. La società civile africana è viva e ha bisogno di sostegno: l’Europa deve aiutarla con pazienza. Così nel tempo si creeranno alternative politiche favorevoli. Ma prima di tutto c’è bisogno che gli europei facciano autocritica: le nostre democrazie sono le sole a saperlo e poterlo fare.

Libia. A distanza di dodici anni e nel pieno caos armato, si può dire che quella a Gheddafi fu una guerra scellerata e che poco aveva a che fare con i diritti umani calpestati dal rais?
Quella guerra è stata un errore grave che si è trasformato in un boomerang. Eravamo stati ben avvisati. Prima dell’attacco venne a Roma il segretario dell’Unione africana Jean Ping ma non fu ascoltato. Io stesso portai dal ministro degli Esteri Franco Frattini quello del Niger, l’attuale presidente prigioniero Mohammed Bazoum, il quale spiegò a Frattini cosa sarebbe successo verso sud se l’Italia avesse permesso a francesi e americani di attaccare. Descrisse in anticipo esattamente ciò che poi accadde. In realtà tutti sapevano che si stava creando il caos che oggi constatiamo coi nostri occhi. Se avessimo ascoltato gli africani non avremmo commesso questo errore. Va abbandonata l’arroganza intellettuale europea che ci impedisce di ascoltare gli altri e che alla fine diventa un autogol.

13 Settembre 2023

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