Il personaggio

Chi era Vilfredo Pareto, il liberale scettico che odiava la democrazia

Inorridito dall’eguaglianza, lo studioso simpatizzante del fascismo vede nel suffragio universale e nelle classi più deboli solo degli intralci. A governare, spiega, devono essere i più ricchi e i più forti

Editoriali - di Michele Prospero

30 Agosto 2023 alle 19:30

Condividi l'articolo

Chi era Vilfredo Pareto, il liberale scettico che odiava la democrazia

Negli anni Venti fu agevole per molti liberali convertirsi al fascismo trionfante. Più arduo è percorrere oggi il tragitto inverso e dal postfascismo governante approdare ad un pensiero liberalconservatore. È da poco ricorso il centenario della morte del sociologo ed economista Vilfredo Pareto, che del cedimento dell’aristocrazia post-unitaria dinanzi ai fermenti totalitari rappresentò un esempio significativo.

Indagare lo sviamento di questo “liberale scettico” può aiutare a penetrare in alcuni persistenti enigmi della cultura politica. Secondo Pareto, la democrazia di massa, che venera “questo nuovo dio che ha nome «suffragio universale»”, è solo la forma politica della decadenza dello Stato. La classe politica, con i suoi “elementi scadenti”, rinuncia alla “legge del volume sociale della violenza” come criterio risolutore delle tensioni che attraversano la modernità. Una borghesia irresoluta non garantisce la difesa degli assetti consolidati dagli attacchi delle nuove classi sempre più combattive, disposte a frantumare la stabilità del quadro politico in vista della realizzazione della “tirannide rossa”.

Serve perciò una critica delle ideologie progressive le quali offuscano la politica come fenomenologia della forza e volontà di potenza di una minoranza che ambisce al comando. Contro “i signori metafisici” che discettano di legge, consenso, legittimazione, Rechtsstaat, Pareto adotta parole liquidatorie. Egli così presenta lo “Stato di diritto”: una “bella entità che, per quante ricerche abbia fatto, mi è rimasta perfettamente ignota, e preferirei avere da descrivere la Chimera”. Le forme della moderna statualità non cambiano il volto del potere politico, che, a detta del teorico dell’elitismo, è per sua essenza sempre incentrato sulle dinamiche della forza. Anche negli ordinamenti che riconoscono “la santità della maggioranza”, sono i pochi ad avere lo scettro contando su un’adesione passiva dei molti o sulle prassi di acquisizione di un consenso “guidato, comprato, manipolato”.

Per Pareto, bisogna afferrare le invarianti della politica come influenza e potere, dato che “tutti i governi si basano sulla forza, e tutti asseriscono di avere il fondamento nella ragione”. Non esiste una vera differenza qualitativa tra i regimi politici giacché “nei fatti, con o senza suffragio universale, è sempre un’oligarchia che governa”. Questa verità elementare viene oscurata dalle dottrine democratiche che, negando la politica come potenza e circolazione-conservazione del dominio delle élite, conducono alla dispersione della sovranità, la quale frana al cospetto dei simboli della “moderna teologia proletaria”.

Bersagli prediletti di Pareto sono le credenze politiche edificanti che accarezzano le idee di uguaglianza, cioè “la teologia del Progresso”, le “tabe dell’umanitarismo”, “la pietà pei delinquenti”, i “governi deboli”. Questi sentimentalismi infrangono il valore della gerarchia, la pregnanza della disciplina e dell’obbedienza. L’autorità si rivela una fortezza sguarnita perché da un secolo ormai “la repressione è diventata sempre più mite” e, davanti alla conflittualità più aspra, si replica con “l’indulgenza sempre crescente”. Come emblema di una esiziale caduta delle prerogative sovrane, lo scienziato sociale rammenta gli scontri di Padova tra “rossi e bianchi” dell’aprile del 1920, quando “il potere centrale non si fece vivo per mantenere l’ordine; guardava benigno la guerra privata”. Dietro al disordine cova il rammollimento della minoranza governante, che esita a decidere le controversie con più spiccate “qualità virili”. Accantonato il pugno di ferro, il governo ripara nel clientelismo e nello scambio quali meccanismi di integrazione dei soggetti organizzati.

In Pareto la crisi dello Stato monoclasse è evidenziata dalle “rovine della sovranità centrale”, allorché compaiono “piccole sovranità locali” e strutture quasi feudali, come i sindacati, provviste di “piccole sovranità particolari”. A suo avviso, “oggi il reggimento «democratico» di molti paesi si può definire, sotto alcuni aspetti, una feudalità in gran parte economica. Qui come mezzo di governo si usa principalmente l’arte delle clientele politiche”. Scompare ogni visione pubblica dei problemi sociali, e tutto l’apparato di governo sembra ridotto a pratica di commercio, particolarismo, scivolamento continuo dell’amministrazione nell’allocazione arbitraria delle risorse. “Lo Stato italiano – sostiene Pareto – altro non è se non una grande clientela”, sicché “da quell’edificio non potete togliere una pietra senza sfasciare tutto”.

La dimensione statuale tende ad allargare la propria sfera d’intervento, e il gigantismo burocratico si disvela come l’espressione di una società in cui la libera iniziativa dei privati viene surrogata con la gestione amministrativa della produzione e ripartizione dei beni. La forma partito tratteggiata da Pareto vede al vertice un nucleo assai ristretto di dirigenti con minimi “fini ideali”, e poi uno strato più ampio ricoperto da figure pronte ad accordare il loro supporto perché mosse da convenienze tangibili. Quando i partiti giungono al potere, “gli uomini che mirano risolutamente a fini ideali sono per loro una specie di zavorra che serve a dare una tinta di onestà al partito; ma assai meglio servono gli uomini che si contentano del godimento del potere e degli onori, che sono una merce non tanto abbondante e perciò ricercatissima dai partiti”.

Il politico paretiano è un abile tessitore di legami con i gruppi di interesse: “occorre, con arte sottile, trovare nella parte economica combinazioni di protezione economica, di favori alle banche, ai trusts, di monopoli, di riforme fiscali ecc. e nelle altre parti, distribuzioni di onorificenze, pressioni sui tribunali ecc., che giovino a coloro che assicurano il potere”. Le idealità si affacciano come semplici maschere all’interno di un recinto politico in cui la supremazia è un bene strategico che si conquista solo con l’elargizione di incentivi materiali. La classe dirigente tradizionale, per Pareto, è responsabile del declino della vecchia Italia, priva di energia vitale da esibire in risposta ai sovversivismi operai. L’età liberale ha sottovalutato nel complesso i “profondi mutamenti che la guerra aveva recato nei sentimenti e negli interessi”, cosicché i governi si trovano senza i fondi “per soddisfare i desideri, i bisogni e la cupidigia” della popolazione.

In definitiva, “i bisogni della politica vengono per tal modo a sovrastare a quelli dell’economia”. Entro un clima di perdurante lassismo, di appannamento dei sommi attributi del potere costretto a negoziazioni e baratti, occorre avere il coraggio di affermare che “il dominio dei forti è generalmente migliore del dominio degli imbelli”. La perdita del senso dell’autorità ha conseguenze devastanti in un contesto marcato da contrapposte concezioni del mondo. Di fronte all’impotenza del potere, Pareto auspica che un movimento radicale, con novelle “legioni di Cesare”, spazzi via il decrepito ordinamento costituzionale. Al parlamento, che non si dimostra altro che “una riunione di combriccole”, il fascismo – in certa misura, “gli eredi dei nostri sindacalisti e dei nostri anarchici” – ha il pregio di opporre la vita, la freschezza politica, la violenza risanatrice, il giovanilismo. Questo richiamo alla nazione, al principio gerarchico fornisce un orizzonte di segno opposto capace di sgonfiare le simbologie agitate dalla sovversione sociale.

L’epoca presente appare a Pareto, le cui lezioni a Losanna sono forse saltuariamente frequentate da Mussolini, e che è anche corrispondente di Sorel, come l’era del mito politico (“ora si rinnovano miti e profezie”). Idoli come la democrazia, il governo dei consigli operai, lo sciopero generale, la Società delle nazioni, si manifestano sul proscenio della politica. L’appiglio mitico mostra una indubbia “efficacia per spingere gli uomini ad operare”, ma non è certo uno strumento utile per “conoscere la realtà sperimentale”, per cui i ceti dominanti devono serbare un lucido disincanto nell’analisi. Dunque, contrariamente agli irrazionalisti stregati dalla rivoluzione conservatrice, Pareto propugna un saldo aggancio ai canoni di una sociologia che sposi un rigoroso metodo “esclusivamente sperimentale, come la chimica, la fisica ed altri simili scienze”.

Alla fabbrica delle mitologie spetta sfornare in serie le semplificazioni necessarie per sedurre la moltitudine altrimenti catturata dai sovversivi. L’ordine, la patria, la sicurezza sono i vessilli branditi per spegnere i sogni di cambiamento e l’effervescenza del conflitto sociale. Lo scenario che Pareto dipinge è quello caratteristico di una guerra civile: “si ha un’indulgenza ognora crescente per i delitti commessi in occasione di scioperi o di altre contese economiche, sociali, politiche”; il governo compie un gesto di resa quando “impone agli agenti della forza pubblica di non fare uso delle armi”; svanita la cura armata della polizia, “la repressione per mezzo dei tribunali si fa pure ognor più fiacca”.

L’universalismo democratico, secondo Pareto, prelude al tracollo dello Stato. Egli ribadisce la sua convinzione che “gravissima illusione è quella degli uomini politici che si figurano potere supplire con inermi leggi all’uso della forza armata”. È per lui insostenibile l’assioma secondo cui il sedizioso “non merita la pena di morte”. Da un liberalismo dai tratti conservatori il sociologo sprofonda così in una prospettiva autoritaria, che contesta l’opinione comune secondo la quale “se gli agenti della forza pubblica non si lasciano accoppare senza usare le armi, si dice che mancano di ponderato giudizio, che sono impulsivi, neurastenici”.

Non stupisce la convergenza di un cultore della forza con il fascismo. Denunciato il consenso democratico come una fede falsa, rigettata come mistificazione la “teologia della ragione”, rifiutate le procedure elettorali egualitarie di investitura del potere, non resta che glorificare la rottura della legalità come invariante (“nel mondo non vi è alcun reggimento politico che non abbia per origine l’illegalità”). Tuttavia, in questo modo, la spiegazione causale dei fenomeni sfuma fatalmente in una metafisica degli istinti, nel naturalismo. La psicologia, l’agire puro allontanano dalla regolarità, dalle costanti sistematiche.

Un analista dei comportamenti irrazionali delle masse segue – egli stesso! – l’onda dell’irrazionale dandosi in preda alla terapia fascinosa dell’autoritarismo. Dietro l’abbaglio politico c’è un nodo speculativo ben colto da Parsons, quando scrive che “Pareto aprì la strada allo sviluppo esplicito di una teoria volontaristica dell’azione”. L’accasamento del (solamente nominato) senatore Pareto nel palazzo del fascismo non è il mero deragliamento di uno studioso smarrito. Anche in virtù dell’intreccio concettuale, l’ideatore di un sistema sociale che non si può modificare che per “gradi insensibili” si affida al totalmente altro, ad un fattore di destabilizzazione che, nella sua furia perturbatrice, viene però salutato come opportunità per ristabilire l’equilibrio razionale perduto.

30 Agosto 2023

Condividi l'articolo