Il 25 luglio 1943
Come è nato il governo Badoglio, storia della congiura del 25 luglio 1943
Mussolini era stanco, spaventato, consapevole di aver perduto la guerra, la stima di Hitler e il consenso degli italiani. Persino la prospettiva delle dimissioni non gli era apparsa troppo amara.
Editoriali - di Simona Colarizi
È opinione diffusa che solo la caduta di Putin possa mettere fine alla guerra in Ucraina. Ritenere però che lo zar possa lasciare il potere sull’onda di una rivolta popolare, è un’illusione smentita dalla storia di tutte le dittature novecentesche in Europa. Gli Stati totalitari, Germania nazista, Italia fascista, Unione Sovietica, ma anche tutta la corona di Stati autoritari, più o meno filonazisti o filofascisti, dalla Polonia all’Ungheria, ai Regni dei Balcani, avevano messo radici così profonde nei loro paesi da impedire ogni moto di ribellione delle masse.
Coercizione e persuasione, repressione, violenza ma anche organizzazione e una macchina del consenso resa più efficace dall’uso dei nuovi media, avevano reso la popolazione inerte e passiva, tranne naturalmente fasce di opposizione, decisamente minoritarie, tenute sotto stretto controllo da potenti reti poliziesche. Dunque la fine dei dittatori va analizzata attraverso una molteplicità di elementi e di protagonisti, compresi i poteri per così dire paralleli, che più o meno lentamente corrodono il tessuto istituzionale, politico ed economico, come è appunto avvenuto in Italia in quel fatidico 25 luglio 1943 – ottanta anni fa.
Il primo elemento fondamentale che fa da cornice all’evento finale, è naturalmente la guerra, una guerra ormai perduta, come era generale convinzione fin dall’autunno 1942 quando a Stalingrado iniziava l’assedio alla grande armata nazista e fascista, preludio alla rovinosa ritirata dall’intero territorio russo. A valanga seguivano le sconfitte in Africa, fino alla resa degli italiani e dei tedeschi prima a Tripoli poi a Tunisi nel maggio 1943. A quel punto lo sbarco alleato in Sicilia era solo questione di giorni. Le spie fasciste che testavano quotidianamente lo “spirito pubblico” – come si diceva allora – segnalavano il completo cedimento della “macchina del consenso” al regime, l’odio crescente della popolazione nei confronti dei gerarchi fascisti e persino di Mussolini, colpevole di aver precipitato l’Italia in un conflitto perduto, costato solo morte, distruzioni, sofferenze e fame.
Troppo deboli però erano le reti dei partiti antifascisti per suscitare un’insurrezione popolare, tanto più che la più organizzata, quella del Pci contava tra il ’42 e il ’43 poco più di 6.000 militanti in tutta Italia. Certo, nel marzo del 1943 per la prima volta esplodevano grandi scioperi operai nelle fabbriche del Nord, ma non bastavano a rovesciare il regime, anche se aprivano una larga crepa nell’edificio della dittatura già scosso dall’interno e abbandonato dai suoi fiancheggiatori. Persino Togliatti era consapevole che la soluzione al dramma poteva arrivare solo dall’alto, come in effetti stava succedendo se si guarda alle manovre in atto per prendere le distanze dal dittatore, a partire dalla Chiesa, fino ad allora l’anello più solido tra il paese cattolico e il regime fascista.
Pio XII aveva dato ascolto agli emissari inviati ripetutamente in Vaticano da Roosevelt e alla fine del 1942, nel rituale discorso radiofonico di Natale, aveva preso posizione a favore delle Democrazie Occidentali. Un via libera importante per i tanti cospiratori in piena attività alla fine del ’42: dagli esponenti della vecchia classe dirigente liberale democratica, antifascista e monarchica, ritiratasi a vita privata nel ventennio (tra cui Bonomi) ai membri della Corte (Maria José, nuora di Vittorio Emanuele III, Acquarone ministro della Real Casa) alle alte cariche delle Forze Armate dove massima era l’agitazione. Avevano guidato la guerra fin dall’inizio assai poco convinti che l’Italia fosse preparata a parteciparvi, come del resto aveva dimostrato la sconfitta in Grecia nell’ottobre 1940, a soli cinque mesi dall’entrata della nazione nel conflitto.
Su di loro Mussolini aveva scaricato tutte le responsabilità, accusandoli di tradimento, proprio quello a cui adesso si preparavano senza sentirsi dei traditori: la loro lealtà era al sovrano custode della nazione, avviata alla catastrofe dal duce, colpevole di essersi alleato alla Germania nazista. Lo scenario del dopo Mussolini che si cominciava a delineare già alla fine del ’42, per molti aspetti non era diverso da quanto in realtà sarebbe successo nella stessa giornata del 25 luglio: si ipotizzava che a guidare un nuovo governo sarebbe stato il generale Badoglio – anche se circolavano altri nomi – che avrebbe imposto una dittatura militare e iniziato le trattative della resa agli alleati. Tutti dunque aspettavano le mosse del re, autorità suprema del paese, l’unica che potesse eliminare il dittatore e porre fine alla guerra.
Aspettative malriposte se si considera quale fosse stato il comportamento del sovrano che aveva piegato la testa al momento della marcia su Roma, così come era rimasto sordo alle suppliche di Giovanni Amendola che gli aveva chiesto di dimissionare Mussolini dopo l’uccisione di Matteotti nel 1924. Amendola era stato bastonato a morte dagli squadristi, ma Vittorio Emanuele III era rimasto immobile, complice per tutti i venti anni della dittatura e dei suoi misfatti – leggi razziali, guerre e persecuzioni contro gli antifascisti. Se nel passato a fermarlo era stata la paura che si scatenasse un’altra guerra civile, adesso i timori si erano moltiplicati dopo vent’anni di dittatura fascista. Sua Maestà era consapevole di quale fosse il reale rapporto di forza tra lui e il duce.
Il dittatore aveva distrutto lo Stato liberale, senza però toccare la monarchia e la figura del monarca, lasciandogli il suo ruolo statutario, anche se svuotato di ogni potere effettivo. Questo equilibrio per tutto il ventennio era rimasto precario, appeso al filo del ricatto che implicava il silenzio e la sottomissione del re al fascismo. Tanto più che stretta l’alleanza con Hitler, Mussolini si era fatto sempre più impaziente di liberarsi dal dualismo fascio-corona, incompatibile con il sogno dello Stato fascista totalitario. In questa situazione la certezza che i fascisti non sarebbero rimasti inerti davanti a un’iniziativa per detronizzare il duce, paralizzava Vittorio Emanuele III.
Ad aggravare la sua paralisi intervenivano poi gli scioperi operai al Nord nel marzo 1943 che risvegliavano la paura della sovversione rossa, lasciando Vittorio Emanuele nel dubbio di quale fosse il pericolo più grande per sé e per la monarchia. Questo timore metteva direttamente fuori gioco i tentativi degli antifascisti monarchici e liberali ai quali il re non aveva alcuna intenzione di dar loro credito, anche se l’ex presidente del Consiglio Bonomi e l’ex ministro Soleri appoggiavano il piano dei generali. Negli anni precedenti alla marcia su Roma erano stati alla guida del paese senza riuscire a impedire le violenze squadriste che avevano scatenato una vera e propria guerra civile preludio all’ascesa di Mussolini al potere. Agli occhi di Vittorio Emanuele III questi révénantes – così li definiva con sprezzo – non avevano alcuna credibilità oggi di gestire una situazione ancora più complicata e pericolosa.
L’immobilismo del sovrano cozzava però con l’avanzata degli angloamericani sbarcati in Sicilia e pronti a invadere la penisola. Del resto lo stato maggiore alleato, perfettamente consapevole di quanto fragile fosse ormai il regime fascista nel paese, decideva di dare un segnale ultimativo al re con il bombardamento del 19 luglio che per la prima volta violava i cieli della capitale. Per di più colpiva proprio il quartiere operaio di San Lorenzo, ex cittadella dei ferrovieri socialisti; e Vittorio Emanuele III sapeva che la scelta non era stata casuale. A questa data però, il re aveva un’altra carta in mano da giocare che gli dava maggiore rassicurazioni, quella dei gerarchi fascisti, anche loro consapevoli di quale catastrofe si preparasse per l’Italia.
Persino Mussolini non aveva dubbi che la sola via d’uscita per la nazione e per il regime fascista fosse la rottura dell’alleanza con Hitler e la resa agli alleati. Una strada impossibile da percorrere, come dimostrava il 19 luglio, lo stesso giorno delle bombe su Roma, il suo incontro a Feltre con il Fuhrer che non lo lasciava neppure parlare. Al suo ritorno nella capitale, i giochi del colpo di stato interno al regime erano praticamente già fatti. In questa congiura il ruolo del sovrano era cruciale, ma rispetto alle altre soluzioni il piano dei fascisti consentiva al re di non fare il primo passo contro il duce. Dino Grandi, presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, aveva bussato alla porta di Villa Savoia già nel marzo ‘43, prospettando a grande linee il progetto dei congiurati, l’ala moderata del partito nella quale confluivano i più noti esponenti del fascismo che avevano affiancato Mussolini fin dall’inizio della sua ascesa al potere.
Molti di loro – tra questi Bottai – erano stati potenti ras delle province, alla guida delle bande armate di centinaia di squadristi. Dismessa la camicia nera, nel ventennio erano stati promossi alle più alte cariche del regime, ammirati e adulati dai notabili del vecchio Stato liberale fiancheggiatori del fascismo. Al complotto di Grandi avevano aderito, tra gli altri, Federzoni, ex capo dei nazionalisti, e il conte Ciano, genero del duce, un tempo entusiasta sostenitore dell’alleanza con la Germania, adesso diventato anti nazista. A loro si contrapponeva il cosiddetto partito tedesco, guidato da Farinacci e da Scorza, segretario del Pnf, che ai moderati imputavano la colpa di aver “svirilizzato” il fascismo privandolo della sua originaria carica rivoluzionaria.
Grandi e i suoi erano convinti che per uscire dalla guerra e salvare il salvabile della dittatura e delle loro stesse vite, si doveva imporre a Mussolini un passo indietro, cioè la rinuncia al ruolo di capo di stato maggiore al comando delle Forze Armate; un ruolo ricoperto dal re, di fatto espropriato della sua funzione. Riportato al comando spettava a Vittorio Emanuele III decidere sul destino dell’Italia. Per raggiungere il loro scopo, i frondisti preparavano un ordine del giorno da sottoporre al voto del Gran Consiglio del fascismo nel quale si chiedeva a Mussolini di lasciare le sue cariche istituzionali e militari per ritornare alla guida del partito e del paese allo sbando. Non compariva però nell’ordine del giorno l’intero quadro del piano che comprendeva l’immediata formazione di un nuovo governo composto in gran parte dai fascisti moderati e guidato da un generale – si preferiva Cavallero a Badoglio. Inoltre per Grandi e pochi altri al successo completo del colpo di stato era indispensabile la resa immediata dell’Italia agli angloamericani e la rottura dell’alleanza con la Germania nazista.
Il sovrano sembrava d’accordo, tanto da insignire Grandi della massima onorificenza, quel Collare dell’Annunziata che lo elevava al rango di cugino del re. In realtà del piano Grandi, Vittorio Emanuele III condivideva solo la prima parte, cioè la rimozione del duce sancita da un voto del supremo organo del regime. Un affare interno al fascismo, dunque, che lo esonerava da ogni responsabilità, mettendolo al riparo dai fulmini dell’ala dura fascista. Quanto al resto, non aveva alcuna intenzione di lasciare spazio nel governo del suo generale ai gerarchi che disposti a tradire il loro capo, non offrivano alcuna garanzia di lealtà alla monarchia. Non lo convinceva neppure l’ultima parte del progetto che avrebbe puntualmente disatteso la stessa mattina del 25 luglio: Hitler non avrebbe mai accettato che l’Italia si arrendesse agli angloamericani contro i quali le truppe tedesche e italiane combattevano nel Mezzogiorno, contendendo loro ogni metro di terreno.
Gli eserciti alleati avevano davanti una strada lunga e difficile per arrivare a Roma dove Vittorio Emanuele III li avrebbe aspettati dilazionando la resa, terrorizzato da una vendetta dei nazisti. Per il momento dunque il conflitto sarebbe continuato al fianco del Fuhrer, come si leggeva nel comunicato radiofonico rilasciato da Badoglio appena nominato primo ministro in quel 25 luglio. Gli eventi di quella giornata fatidica, iniziata il 24 luglio e conclusa il 25 luglio nelle prime ore del mattino, sono stati raccontati in tutti i particolari grazie anche a un vastissimo materiale documentario, ricco di testimonianze con le quali i protagonisti del colpo di stato hanno dato la loro versione di quanto accaduto. Una versione piena di contraddizioni, che cambiava col passare del tempo quando si faceva più lontana la tragica vicenda dell’ultimo fascismo, guidato da Mussolini ormai un’ombra di se stesso.
I nazisti che lo avevano riportato al potere, lo consideravano solo un “Quisling”, impotente persino a frenare le vendette dei gerarchi andati in minoranza al Gran Consiglio, al punto di non riuscire a salvar la vita neppure del genero, condannato al processo di Verona e fucilato insieme ad altri sei congiurati. Tutti gli altri, tra i quali Grandi, Federzoni, Bottai, cioè la maggioranza dei votanti a favore dell’ordine del giorno, erano fuggiti per non cadere nelle mani dei fascisti duri risorti dopo l’occupazione di Roma da parte degli eserciti tedeschi, mentre il sovrano, Badoglio, tutto il governo e lo stato maggiore avevano abbandonato la capitale già dall’8 settembre.
In assenza di un verbale che offra un resoconto dei discorsi pronunciati quella notte, quando il clima si era andato surriscaldando, si possono solo avanzare alcune ipotesi su questa sorta di “eutanasia” del regime, come ha sottolineato Emilio Gentile (2023). Badoglio lo ha definito un suicidio consapevole o involontario, dal momento che nella giornata del 25 luglio quando la notizia delle dimissioni e dell’arresto di Mussolini si diffondeva, il regime improvvisamente si era dissolto nel nulla: nessuna reazione da parte della base, dei quadri intermedi, della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e dei gerarchi sconfitti dal voto al Gran Consiglio, tutti scomparsi dalla circolazione, mentre le strade di tutta Italia erano invase da una folla festante per la fine del fascismo.
Quanto ai congiurati che Mussolini a Salò definiva traditori, a posteriori si sarebbero difesi chi rivendicando il valore di un atto patriottico per salvare l’Italia liberandola dal dittatore, responsabile della disastrosa guerra al fianco di Hitler; chi invece sosteneva la totale buona fede di un’iniziativa che avrebbe dovuto rivitalizzare il fascismo cui veniva restituito il suo capo. Resta però aperto l’interrogativo più importante che riguarda Mussolini, di cui nessuno aveva mai sottovalutato l’intelligenza politica. Del resto non era la prima volta che il duce si trovava a mediare all’interno del regime tra moderati ed estremisti in perpetua guerra fra loro, e sempre era riuscito a trovare una mediazione, spostando alternativamente l’asse della politica fascista più a destra o più a sinistra. Mai aveva permesso di restare incastrato in una votazione che gli legasse le mani; tanto più che il Gran Consiglio era solo un luogo di discussione, a volte accesa, ma in genere conclusa appunto con una soluzione di compromesso.
Era stanco, forse anche spaventato; consapevole comunque di aver perduto la guerra, la stima di Hitler e il consenso degli italiani. Anche se l’ordine pubblico non veniva ancora violato – a eccezione degli scioperi operai che non si erano trasformati però in una rivolta – sapeva quanto fosse salita la tensione nel paese. Sapeva che l’unica strada era staccarsi da Hitler e cercare di patteggiare con gli alleati la sopravvivenza sua e del regime, magari con un repentino cambiamento di fronte, non inusuale nei rapporti internazionali dell’Italia. Sapeva però che l’alleato tedesco glielo avrebbe impedito, anche con la forza.
E allora, persino la prospettiva delle dimissioni non gli era apparsa troppo amara; gli lasciava per lo meno la speranza di un possibile rilancio, di un accordo con Vittorio Emanuele III di fronte al quale si era presentato la mattina del 25 luglio, quasi fosse una visita rituale del capo del governo al suo re per informarlo di quanto era avvenuto. All’uscita da Villa Savoia veniva invece arrestato. Si chiudeva la prima parte della storia che sarebbe arrivata all’ultimo atto un anno e otto mesi dopo nell’aprile del 1945.