L'addio 40 anni fa
Chi era Rocco Chinnici, un gigante maestro di Falcone e Borsellino
Fu il primo a comprendere che il problema mafioso deve essere affrontato su più fronti: quello giudiziario e quindi attraverso la repressione dei reati ma ancor di più quello sociale
Editoriali - di Carmine Fotia
Quarant’anni fa a Palermo c’era uno scirocco che tagliava le gambe mentre in via Pipitone Federico il tritolo annientava il capo dell’ufficio istruzione Rocco Chinnici, due uomini della scorta, Mario Trapasso e Salvatore Bortolotta e il portiere dello stabile dove abitava il giudice, Stefano Li Sacchi. Si salvò, pur gravemente ferito, l’autista del giudice, Giovanni Paparcuri.
Quell’attentato, cinquantasei kg di tritolo fatti esplodere da Antonino Madonia, boss di Resuttana, in una 126 verde parcheggiata davanti la casa del giudice, fu ordinato dalla cupola mafiosa per impedire al giudice “padre” del pool antimafia di Palermo di proseguire nella sua attività che puntava al Gotha del potere mafioso. Nove anni dopo, il 19 luglio 1992, sempre una 126 imbottita di esplosivo, ma questa volta di colore amaranto, viene fatta esplodere in via D’Amelio per cancellare dalla faccia della terra Paolo Borsellino e la sua scorta. L’estate successiva, nel 1993, sempre con la modalità dell’autobomba, gli attentati mafiosi di Roma, Firenze e Milano. Quarant’anni dopo sappiamo dunque che l’attentato di via Pipitone Federico segna l’inizio del decennio dell’attacco dello stragismo mafioso alla democrazia italiana.
Gli anni ottanta del secolo scorso non solo gli anni del riflusso dopo il ciclo di lotte degli anni settanta (che si chiudono con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro nel 1978 e la conseguente fine del tentativo riformatore della solidarietà nazionale e con la sconfitta operaia alla Fiat nel 1980). Il 1983 è un anno dove cominciano tante cose: in Italia, dopo la cocente sconfitta della Dc di Ciriaco De Mita alle elezioni, nasce il primo governo guidato da un socialista, il segretario del Psi, Bettino Craxi. È l’anno nel quale scompare Emanuela Orlandi e comincia uno dei più oscuri misteri italiani, è l’anno dell’arresto di Enzo Tortora, il più clamoroso caso di malagiustizia italiana, rimasto totalmente impunito. Gli italiani ascoltano Vamos a La Playa dei Righeira, Platinì vince il pallone d’oro, al cinema escono Gandhi e Scarface, la Motorola lancia il primo telefono cellulare, si chiama DynaTac 8000x, è lungo 25 centimetri, pesa 800 grammi e costa quattromila dollari, Ronald Reagan lancia il programma di difesa conosciuto come Scudo Spaziale.
A Palermo, in quell’anno, come ormai da molti, troppi, si contano i morti. Nel 1979 tocca al capo dell’ufficio istruzione Cesare Terranova e al capo della mobile Boris Giuliano, nel 1980 al capo della procura, Gaetano Costa e al presidente della regione, il democristiano moroteo Piersanti Mattarella che aveva formato una giunta con l’appoggio dei comunisti ed espresse il fermo proposito di tagliare i legami tra la mafia e la regione; nel 1982 prima tocca al segretario regionale del Pci, Pio La Torre e poi al prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Anche nel mio piccolo il 1983 è un anno cruciale: ho terminato da poco il servizio militare (artigliere semplice, caserma punitiva di artiglieria pesante campale a Persano – si usava così per chi era schedato politicamente come estremista di sinistra), sono rientrato al Manifesto dove avevo cominciato a lavorare nel 1980 e sto per diventare notista politico del giornale.
Ho già scritto di mafia, di Gerlando Alberti, detto “U paccarè” (l’imperturbabile) che gestiva le prime raffinerie di eroina scoperte in Sicilia; un personaggio importante nelle gerarchie mafiose, il cui soprannome vi sarà più chiaro leggendo quanto rispose quando gli chiesero cosa fosse la mafia: “La mafia! Che cosa è? Una specie di formaggio?” Ho raccontato i funerali del dirigente comunista di Cetraro, Giannino Lo Sardo: un corteo si arrampica lungo la strada di montagna snodandosi come un lunghissimo serpente di bandiere rosse e poi, nella piazza traboccante di folla, Enrico Berlinguer, alle cui spalle c’è Pio La Torre, definisce quello di Giannino Lo Sardo il più grave delitto politico-mafioso mai avvenuto in Calabria.
Quel giorno del 1983 fu però il mio vero battesimo del fuoco. Non sapevo allora che si apriva un decennio in cui avrei vissuto e raccontato il dolore e la rabbia, il coraggio e la viltà, gli eroi e i boia di una stagione di sangue e morte. Quel che sapevo allora, però, e che scrissi, era che eravamo di fronte a un salto di qualità della strategia mafiosa che si ergeva come potenza politica autonoma, dotata di enorme forza economica e militare, decisa a non accettare la subalternità ai politici. I nuovi capi, i corleonesi, dopo aver vinto la guerra di mafia contro la vecchia aristocrazia mafiosa che amava infiltrarsi, trattare, persuadere, convivere con lo stato vuole ora sottomettere lo stato: i politici o sono burattini nelle loro mani o devono morire. E questo vale anche per giudici, poliziotti, carabinieri, imprenditori, sacerdoti.
Il 29 luglio riuscì a partire con l’aereo della presidenza della repubblica che trasportava a Palermo i membri del Csm insieme a Sandro Pertini. Raccolsi in volo le opinioni di alcuni consiglieri. “C’è uno scatto diverso – diceva Raffaele Cantone – siamo di fronte a una criminalità destabilizzante”. Aggiungeva Alfredo Galasso: “Chinnici era convinto che oltre al livello della manovalanza e quello che guida le cosche esista un livello di criminalità terroristico-mafiosa. Da ciò ne deduceva che i grandi delitti politico-mafiosi di questi anni rientrano nella strategia politica della mafia”.
Ricordo i funerali nel Pantheon dei palermitani, la basilica di San Domenico, dove la città piange i suoi morti. C’era poca gente. Le parole del cardinale Pappalardo furono disperate e disperanti: “Non abbiamo nulla da dire che non sia stato già detto e ripetuto in simili occasioni”. Il Manifesto titolò . “Tutto è stato già detto”. Il volto del presidente Sandro Pertini era una maschera tragica: “Non voglio dire nulla. Ho il volto gonfio di dolore” disse ma aggiunse: “Il popolo siciliano deve ribellarsi e saprà farlo perché è un popolo forte e coraggioso”.
Come poteva non disperarsi il cardinale Pappalardo, il primo vescovo di Palermo che spezza la lunga consuetudine tra chiesa e mafia, proprio lui che nel settembre dell’anno prima, dopo l’omicidio di Dalla Chiesa, in quella stessa chiesa, aveva pronunciato un’omelia che era un atto d’accuse insieme una richiesta di aiuto che non arrivò, mentre la mafia tornava a colpire a costo di trasformare Palermo in una città bombardata: “Palermo come Beirut”, titolò il glorioso L’Ora. Ai funerali del prefetto, alzando il tono della voce, il cardinale aveva detto: “Sovviene e si può applicare una nota frase della letteratura latina, di Sallustio, mi pare: «Dum Romae consulitur … Saguntum expugnatur», mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! E questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera Palermo!”.
Sempre nella chiesa di San Domenico, nove anni dopo, per i funerali di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli agenti della scorta, di fronte a una città in rivolta contro la mafia e uno stato imbelle, tra fumi d’incenso, lacrime e sudore, nella navata risuonò l’urlo strozzato di Rosaria Schifani, vedova di uno degli agenti della scorta: “Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro…ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio… di cambiare… loro non cambiano…di cambiare…di cambiare, loro non vogliono cambiare loro. Loro non cambiano, loro non cambiano…”.
La strage di via Pipitone Federico fu un attacco frontale. Si poneva come obiettivo di fermare l’inventore del pool, il giudice che aveva capito il mutamento della mafia sia sul piano organizzativo, non singole cosche ma un’organizzazione unitaria, governata da una commissione, che su quello degli affari con il traffico d’eroina e aveva anche messo a nudo l’esistenza in Sicilia di un vero e proprio sistema politico-mafioso. Ma era anche un attacco destabilizzante e terrorizzante, per imporre il proprio ordine a suon di bombe.
La mafia, scriveva Chinnici, pur diventando imprenditrice non rinuncia ai rapporto con il potere: “L’omicidio del presidente della regione Piersanti Mattarella, caduto nel tentativo generoso di dare un volto nuovo alle pubbliche istituzioni e nel momento in cui, predisponendo le necessarie riforme stava per passare alla enunciazione di linee programmatiche dirette ad estromettere mafia e sistemi mafiosi dai gangli vitali della Regione, costituisce la drammatica riprova della validità della tesi che qui si sostiene. Si aggiunge, inoltre, che la mafia, oggi come nel passato, non può avere incidenza politica se abbandona schemi collaudati da oltre in secolo, se, forte della potenza economico-finanziaria raggiunta, allenta i vincoli che la legano al potere. E se è vero che, per il raggiungimento di determinati obiettivi illeciti ha mutuato metodi e sistemi gangsteristici è fatto incontestabile che il rapporto con certi settori del potere permane tuttora pur se, per ragioni contingenti, esso sembra meno appariscente di quanto fosse qualche anno fa”.
Così Paolo Borsellino ricordava il suo capo e mentore: “A capo della struttura giudiziaria più esposta d’Italia, si prefisse di potenziarla opportunamente e renderla efficace strumento di quelle indagini nei confronti della criminalità organizzata, troppo a lungo trascurate in precedenza. Uno per uno ci scelse: noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costituito il così detto pool antimafia […] Credeva fermamente nella necessità del lavoro di equipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione delle informazioni tra i suoi…Gli era così chiara l’unitarietà e l’interdipendenza fra tutte le famiglie mafiose e palese la connessione fra tutti i loro principali delitti che a lui risalgono la paternità o almeno l’ispirazione dei primi provvedimenti di riunione delle istruttorie sui grandi delitti di mafia.”
Chinnici è il primo ad intuire le relazioni tra la mafia siciliana e la mafia “esportata” negli Usa e con il fiorente business del narcotraffico, oltre a comprendere che il problema mafioso deve essere affrontato da più fronti: quello giudiziario e quindi attraverso la repressione dei reati ma ancor di più quello sociologico, didattico, educativo. Egli modifica totalmente il metodo di lavoro dell’ufficio: ogni magistrato seguiva i propri processi e, se da un lato significava grande autonomia, dall’altro comportava l’estrema parcellizzazione delle conoscenze. Inoltre, spesso, i processi venivano celebrati per singoli episodi, per perseguire singoli reati. Egli intuì che un fenomeno radicato, globale, come quello della criminalità mafiosa necessitasse di essere affrontato nel complesso e non combattendo reato per reato, processo per processo. Decise di costituire un gruppo: chiamò a sé Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e dopo Giuseppe Di Lello e con loro istituì a livello informale quello che sotto la guida di Antonino Caponnetto prenderà il nome di pool antimafia.
Rocco Chinnici, però, pur avendo una grande competenza tecnica non credeva affatto che la mafia potesse essere sconfitta solo per visa giudiziaria: “La lotta alla mafia deve partire dagli aspetti morfologici del fenomeno: contro l’infiltrazione mafiosa è necessario l’avvio di un processo di disinquinamento seguendo i principi di una bonifica sociale. Occorre, infatti, prendere atto che la mafia svolge nella società un ruolo di un’istituzione, amministrando il proprio potere al fine di garantirsi sempre più diffusi e radicati inserimenti ed un costante reclutamento; la mafia non recluta solo nelle carceri ma dovunque si ponga ai giovani la scelta fra l’emarginazione e il prestigio, il ruolo sociale, il denaro facile, la carriera ed il successo – pur con gli enormi rischi connessi – del mafioso. Tagliare le basi sociali del reclutamento significa recidere le radici stesse dell’organizzazione”.
Queste idee allora erano rivoluzionarie perché mettevano a nudo il sistema di potere e rompevano consolidati rapporti di convivenza, anche dentro la magistratura. Chinnici aveva individuato nei cugini Ignazio e Nino Salvo, i potentissimi esattori siciliani della famiglia mafiosa di Salemi, vicini alla corrente andreottiana siciliana guidata da Salvo Lima, il centro motore di un vasto e ramificato sistema di potere mafioso che aveva forti addentellati nell’economia e nelle istituzioni. I suoi superiori lo chiamavano per dirgli di seppellire Falcone di “processetti” e di smetterla di “rovinare” l’economia siciliana e Chinnici aveva espresso l’intenzione di emettere mandati di cattura per associazione mafiosa proprio nei confronti degli esattori che si rivolsero alla commissione di Cosa Nostra che ordinò la strage.
Come era già capitato a Gaetano Costa e come poi capiterà a Falcone e Borsellino, Chinnici aveva tanti nemici anche dentro il palazzo di giustizia. Del resto, come avrebbe detto anni dopo Giovanni Falcone nell’intervista a Marcel Padovani, la mafia prima ti isola e poi ti ammazza. Di tale isolamento sono drammatica testimonianza le sue deposizioni al Csm e i diari trovati dopo la sua morte: “Io sono venuto qui per dare il massimo della collaborazione per dire tutto quello che sapevo perché avevo il dovere giuridico, ma soprattutto morale di dire, io vi prego di tenere presente questo fatto, che a Palermo c’è una situazione di estremo disagio, io non so a chi affidare i processi perché non ho magistrati, e guardate che le minacce non le ho avute soltanto io. Una domenica ho trepidato fino a quando non ho saputo che il collega era a casa, perché, mi telefonano i carabinieri preoccupatissimi, perché dall’Ucciardone, era partito l’ordine di uccidere Borsellino; una notte alle undici mi arriva una telefonata, e mi informavano che dall’America avevano saputo che Falcone doveva essere ucciso in America; non si può vivere, anche se uno ha un buon sistema nervoso, non si può vivere in questo modo, perché se io avessi 12, 14 giudici istruttori io dividerei i processi. Di fatto, giudici ai quali posso affidare questo tipo di processi (e con ciò non voglio creare giudici di serie A e giudici di serie B) debbo dire che ne ho soltanto 2 o 3 al massimo”.
E diceva ancora Chinnici: “Parlammo di processi ed io ebbi la sensazione che Costa fosse molto, ma molto prudente, perché era nuovo dell’ambiente e lui studiava l’ambiente; non solo esterno, ma anche 1’ambiente del palazzo di giustizia. Mi diceva, parlando di Palermo: «in questa città non c’era da fidarsi di nessuno»; questo poi me lo ribadì in maniera più precisa e concreta quando, dopo l’arrivo di questi processi, dopo la presa di posizione dell’ufficio istruzione, incominciarono ad arrivare delle minacce di morte a me direttamente con telefonate a casa, di cui alcune registrate. Io andai da Costa e questi, sconsolato, mi disse: «questa è una città nella quale non si può vivere» ed io ebbi il sospetto, poiché Costa non l’avrebbe mai ammesso, avevo imparato a conoscerlo, che anche lui avesse ricevuto qualche minaccia, altrimenti non si spiegherebbe questa frase così stringata e sibillina, «questa è una città nella quale non si può vivere». Nella prima telefonata di minaccia mi si disse testualmente «sono l’avvocato Russo D’Agrigento», non era un professionista. Da come parlava si sentiva molto bene che era un mafioso. È stata sempre la stessa persona che mi ha telefonato tre o quattro volte in maniera chiara e aperta. Poi sempre su questa scia, altre telefonate; l’ultima, la più brutta, quella in cui mi si dice «Il nostro tribunale l’ha già condannata l’ammazzeremo comunque”.
Siamo morti che camminano, diceva Paolo Borsellino a Giovanni Falcone e anche Rocco Chinnici dovette sentirsi così: “Palermo è una città sonnolente, Palermo è una città piena di mafia, non è soltanto a livello della gente comune che si evita di parlare, ma anche a certi livelli”. Ci vorranno dieci anni, troppi, e ancora tanto sangue, troppo, per risvegliare la città e il paese da quella complice sonnolenza e avviare una controffensiva dello stato che ha seppellito di ergastoli i capi della mafia terroristica. Oggi, nel quarantesimo anniversario della strage di via Pipitone Federico, è giusto ricordare che senza Rocco Chinnici il lungo cammino che portò infine alla vittoria dello Stato sui corleonesi non sarebbe mai iniziato.