L'omicidio di Borsellino
Dalla strage di via D’Amelio uscì sconfitto Riina, ecco perché
In quella strada saltò in aria anche il sistema di connivenze che contrastò l’azione di Falcone e Borsellino. Lì la Cosa nostra dei corleonesi perse la sua sfi da. Le corna se le ruppero loro, i boss
Editoriali - di Carmine Fotia
«È triste dirlo ma se ci fu un omicidio annunciato fu quello di Paolo Borsellino. Io provai sgomento come quello che dovette provare l’ex-capo del pool Nino Caponnetto quando disse che tutto era finito. Lo stesso sgomento cupo che mi colse dopo l’attentato dell’11 settembre contro le due torri di New York. Beh, anche noi avevamo perduto le nostre due torri». Sono le parole che mi consegnò Andrea Camilleri dieci anni dopo la strage di via D’Amelio per un documentario su La 7 (che viene riproposto oggi a Narni) e non c’è modo migliore che partire dalle parole del grande scrittore siciliano per far capire cosa provammo noi che quelle stagioni le abbiamo vissute direttamente, per trasmettere la memoria di una tragedia dopo la quale niente fu più come prima.
Dico subito che il mio non sarà un racconto fondato sulla teoria del complotto nel quale la mafia gioca il ruolo della manovalanza cui un potere esterno ordina quel che fare. L’assoluzione di Calogero Mannino e del generale Mario Mori nei vari processi per la presunta trattativa tra stato e mafia non ferma i pm che tornano all’attacco sui mandanti esterni, questa volta Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Tornando alla metafora di Camilleri, anche dopo l’11 settembre si svilupparono teorie complottiste sull’attentato ancor oggi diffuse. Le teorie del complotto hanno il vantaggio che, partendo dal presupposto di una consorteria segreta che coinvolge i vertici dello stato, le prove non saranno mai trovate perché il deep state le ha nascoste. È una teoria che si autoavvera che non ha bisogno di prove proprio perché il suo stesso paradigma esclude che esse possano essere mai trovate.
Su questo la penso esattamente come il professor Giovanni Fiandaca che intervistai cinque anni fa, a venticinque anni dalle stragi, proprio per questo giornale : “È un’ipotesi accusatoria che finora non ha trovato adeguati riscontri, né sul piano giudiziario né su quello della ricostruzione storico-giornalistica. Una cosa è sostenere che non è da escludere che possa esserci stata qualche complicità, altra cosa e darla per provata. In ogni caso, a mio giudizio, non è molto plausibile la tesi di una sorta di complotto universale, concepito nell’ambito di una regia unitaria da pezzi della politica, pezzi del mondo imprenditoriale, pezzi della massoneria e articolazioni dei servizi segreti deviati. Comunque sia, l’assoluzione di Mannino, seguita dalla recentissima assoluzione del generale Mori, fanno certamente venir meno strutture portanti dell’edificio accusatorio dei pubblici ministeri”.
Non credere alla teoria dei mandanti esterni non vuol dire affatto sottovalutare le complicità politiche e istituzionali di cui ha goduto la mafia, né le difficoltà e il drammatico isolamento, anzitutto dentro la stessa magistratura, cui andarono incontro nel corso degli anni Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, come ha ricordato su questo giornale l’avvocato Fabio Maria Trizzino. Né che occorra scavare ancora per capire se, oltre al compimento di una strategia di eliminazione dei suoi avversari, ci sia stata anche qualche ragione specifica legata a indagini delicate in cui Borsellino era impegnato. Quel che è certo che l’esistenza di complicità nelle istituzioni non nasce nel 1992 e comincia ben prima che Silvio Berlusconi assumesse un ruolo politico. Come è certo che la strategia del tritolo per piegare lo stato e costringerlo a chinare la testa non è neppure essa nuova, potremmo dire che è nel Dna dei corleonesi.
È una storia che comincia negli anni ’80, quando Cosa Nostra finisce sotto il comando dei corleonesi che fanno saltare l’equilibrio che da decenni poggiava sul legame tra le famiglie dell’aristocrazia mafiosa siciliana e pezzi della Dc, in particolare della corrente andreottiana. A quel tavolo la politica sedeva al posto di comando. Con l’arrivo dei corleonesi entra in scena una nuova mafia militarizzata che non riconosce l’egemonia della politica e si afferma con il tritolo e i Kalashnikov, fin dalla strage di Ciaculli del 1963. Vent’anni dopo quella strage, nell’estate del 1983, sbarco in una Sicilia caldissima che diventa rovente quando, alle 8.05 del mattino del 29 luglio, davanti all’abitazione di Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione di Palermo, in via Pipitone Federico viene fatta esplodere una 126 verde oliva carica di 75 kg di tritolo.
L’ordine, come accertato in via definitiva in sede giudiziaria, venne dalla Cupola mafiosa, dove comandavano i corleonesi di Totò Riina, ‘u curtu, di Bernardo Provenzano,’u zu’ Binnu, di Leoluca Bagarella, ‘u tratturi. Chinnici aveva preso il posto di Cesare Terranova, assassinato l’anno prima insieme al maresciallo Lenin Mancuso su ordine del capostipite dei corleonesi, Luciano Leggio, detto Lucianeddu. Insieme al capo dell’ufficio istruzione morirono altri tre uomini: Mario Trapassi, Salvatore Bortolotta, Stefano Li Sacchi.
Rocco Chinnici aveva appena firmato i mandati di cattura per Nino e Ignazio Salvo, membri di Cosa Nostra che avevano forti agganci con la corrente andreottiana in Sicilia. Era stato lui a intuire che di fronte al carattere unitario di Cosa Nostra la magistratura avrebbe dovuto agire in modo coordinato e a creare il pool antimafia. C’erano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta. Fu una svolta. Il genio investigativo del capo della mobile Boris Giuliano, assassinato nel 1979, aveva ricostruito, attraverso un giro di assegni, un traffico di eroina che faceva capo ai capimafia palermitani. La Sicilia negli anni ’70 aveva cominciato a raffinare eroina per il mercato americano. Il boss era Stefano Bontade, detto il principe, per la sua passione per le donne e gli abiti eleganti, legato alle famiglie americane di Cosa Nostra.
Falcone, su input di Chinnici, stava ricostruendo attraverso una difficilissima inchiesta sui conti correnti bancari, la rete mafiosa che coinvolgeva anche nomi di primo piano della borghesia siciliana, come i cugini Ignazio e Nino Salvo, gli esattori delle tasse per conto della regione siciliana, con aggi superiori che nel resto del paese. Erano l’elite della borghesia palermitana, legati a doppio filo a Salvo Lima, potentissimo capo degli andreottiani siciliani e a Vito Ciancimino, il sindaco del sacco di Palermo.
Erano tutti membri di Cosa Nostra. Ma allora neppure si sapeva cosa fosse Cosa Nostra, la mafia era considerata un insieme di cosche autonome, scollegate le une dalle altre. E se ne perseguiva a fatica l’aspetto criminale, sfuggiva il fatto che gli omicidi non erano casuali ma seguivano una precisa strategia decisa dalla Commissione. Regnando la regola dell’omertà, magari venivano condannati i killer (le rare volte che si riuscivano a catturare), ma i capi ne uscivano sempre assolti per insufficienza di prove (come ha ricordato Peppino Di Lello nel suo libro Giudici. Falcone, che aveva cominciato a collaborare con la Dea, aveva importato la regola principe della lotta al crimine organizzato in America: follow the money. E Chinnici non solo lo assecondava ma capì che l’intreccio delle cosche andasse indagato con uno sguardo unico, accorpando le indagini e specializzando i membri del pool, liberati dalla routine.
Falcone e il pool furono accusati di voler “rovinare” l’economia siciliana con le loro indagini bancarie e il procuratore Pizzillo intimava inutilmente a Chinnici di seppellire Falcone sotto una montagna di processetti. Nel Palazzo di giustizia di Palermo, il Palazzo dei Veleni, la maggioranza dei magistrati, invece di apprezzare la novità e solidarizzare con i colleghi che correvano enormi rischi violando quelli che allora erano veri e propri santuari, li consideravano dei privilegiati: giudici-sceriffi, li chiamavano con disprezzo.
Nove anni dopo, in un’estate anch’essa caldissima, il 19 luglio del 1992, torno a Palermo. C’ero appena stato in maggio, davanti all’asfalto di Capaci, sventrato da una gigantesca quantità di esplosivo, e prim’ancora a marzo per l’assassinio di Salvo Lima, l’uomo che non aveva mantenuto le promesse di aggiustamento del maxiprocesso. Ed ora sono qui, in via D’Amelio con l’odore ferrigno dell’esplosivo che ti entra nelle narici e il fumo nero che si diffonde in città come una lebbra. Quando eravamo venuti a raccontare di Falcone, Paolo Borsellino era una presenza dolente che, lo scoprimmo dopo, non piangeva solo l’amico, ma contava i giorni che gli restavano da vivere, prima che i boia mafiosi decidessero di eliminare anche lui. Il problema non era se, ma quando. E perciò ingaggiò una specie di lotta contro il tempo, per scoprire chi avesse ucciso il suo amico e collega Giovanni, sua moglie Francesca Morvillo, gli uomini della scorta, ma anche per denunciare chi aveva tradito il suo amico Giovanni e affossato il pool antimafia. Borsellino sapeva benissimo che gli attacchi non erano venuti solo dalla mafia, o dalla politica corrotta e connivente (che c’era, oh sì che c’era), ma anche dai giuda interni alla magistratura che avevano isolato e boicottato il suo amico Giovanni.
A tutto questo pensavo mentre percorrevo le strade di una città furente, addolorata, che si rivoltava contro uno stato che aveva consentito quell’incredibile mattanza. Sono qui, dove hanno massacrato Paolo Borsellino e i sei agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. È una strada chiusa, attorno alla quale si innalzano palazzoni alti, fino a tredici piani; da uno spicchio tra un palazzo e l’altro si vede il Monte Pellegrino. Questa scena ricorda Beirut: una trentina di macchine distrutte dalla vampata dell’esplosione, a cavallo di un muro un pezzo dell’autobomba, odore intenso e acre di lamiere bruciate, di gomma arsa, vetri dappertutto, l’asfalto nero contorto. E i palazzi semidistrutti, i muri aperti dall’esplosione, le finestre gonfie e ritorte, le lesioni sulle facciate. Un albero tutto bruciato: è qui sopra che hanno raccolto quel che restava del povero corpo di Emanuela Loi.
Davanti all’asfalto ingobbito di Capaci un cronista della tv svizzera mi aveva detto chiesto: “Is it a war?”. Lo era, ma in questa guerra lo stato si ferma dopo ogni piccola battaglia vinta, mentre la mafia, giunta all’apice della sua potenza economico-militare, dispiega la propria onnipotenza e dice: io posso tutto, io posso assassinare come un cane, in mezzo alla strada, l’uomo politico che non ha mantenuto le promesse; io posso togliere di mezzo il giudice più protetto d’Italia, il mio nemico numero uno, quello che vi ha costretto a guardare di che cosa sono fatta davvero. E per farlo vi dimostro che posso, letteralmente, sollevare la terra sulla quale camminate. Ed ora, 57 giorni dopo, Palermo viene ancora mortalmente bombardata. Un colpo di maglio che si abbatte su una città che si sente violentata dalla violenza mafiosa, abbandonata dallo stato, incollerita e smarrita.
Falcone e Borsellino dovevano morire perché avevano guardato il mostro negli occhi, ne avevano compreso il salto di qualità. Non più un insieme di cosche, ma un vertice che governa con il pugno di ferro, che ha intrecciato legami con pezzi della politica e dello stato. Ma che non prende ordini da nessuno perché si concepisce come un potere. Ora è tutto tragicamente chiaro: un pezzo d’Italia che è Colombia e Libano. Con i piedi ben piantati qui, il potere mafioso alza la tesa e guarda in alto, alla ricerca del suo posto tra i poteri, oligarchia armata che vive del deficit di democrazia e a sua volta lo alimenta.
Nel corso degli anni ‘80 la mafia aveva decapitato il sistema politico e istituzionale siciliano, assassinando il capo della mobile, Boris Giuliano, il capo dell’ufficio istruzione, Cesare Terranova, il capo della procura, Gaetano Costa, il segretario provinciale della Dc, Michele Reina, il presidente della regione Piersanti Mattarella, il segretario regionale del Pci, Pio La Torre, il prefetto antimafia, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il giudice istruttore Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia, il mentore di Giovanni Falcone. Non è solo un impressionante elenco di morti, è un colpo di stato silenzioso, che divora dall’interno la legalità con le complicità e le connessioni e abbatte chiunque si metta sulla sua strada, mentre Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e il pool antimafia ne svelano la nuova natura: Cosa Nostra, micidiale macchina di guerra, mix di traffici illegali, khalasnikov e business, tritolo e politica.
I vecchi patti con la politica sono saltati e coloro che per complicità o codardia non avevano voluto vedere l’ascesa sanguinosa dei corleonesi, ora assistevano sgomenti e terrorizzati a quella dimostrazione di geometrica potenza militare. “Immagina se in Lombardia avessero ucciso il presidente della regione, e a Milano il prefetto, il capo della procura, il capo dell’ufficio istruzione, il capo della squadra mobile. Questo avveniva in quegli anni a Palermo”, mi ha detto Giuseppe Di Lello. Infine, giunge il giorno dei funerali degli agenti della scorta di Paolo Borsellino. Ancora oggi non ho dimenticato le mani di Palermo. Quelle della sua gente, voglio dire. Migliaia.
Mani disarmate, che si levano al cielo, che si intrecciano l’una con l’altra, che coprono il viso di chi piange, che si congiungono in preghiera o si alzano sulle teste a ritmare l’applauso. Le mani che piombano sul capo dello stato, Oscar Luigi Scalfaro e su quello della polizia Parisi. In queste mani c’è la forza e la disperazione, la ragione e la collera di un’intera città. Una città che lo stato della vergogna avrebbe voluto tenere lontano dalla sua cattedrale, dai suoi morti, dal suo dolore. Perché ha paura della sua coscienza sporca, delle promesse non mantenute, delle cose non fatte, delle complicità e delle collusioni ormai irrimediabilmente venute alla luce.
Non è Palermo, è lo stato che è irredimibile, che teme l’ira giusta dei cittadini, e così, non per catturare latitanti, ma per impedire alla città di avvicinarsi alla cattedrale, la mette in stato d’assedio. Camionette, blindati, doppi, tripli e quadrupli cordoni di agenti, peraltro con ogni evidenza niente affatto felici del compito che è stato loro affidato, a presidiare tutti gli ingressi e le vie d’accesso alla cattedrale che vengono però infine travolte dalla folla che vuole partecipare a un funerale che sente suo. C’è un sole feroce, che non perdona. Palermo gronda lacrime e sudore.
Quel che è certo è che un sistema vasto di complicità e connivenze che ebbe la sua parte nel contrastare l’azione di Falcone e Borsellino, s’infranse in via D’Amelio. Forse è in quel momento che la Cosa Nostra dei corleonesi lanciata nella folle corsa stragista e terrorista ha perduto la sua sfida. La mafia non è stata sconfitta definitivamente, questo no, essa si riproduce continuamente come un camaleonte, alla ricerca continua di denaro, potere e affari. Ma se l’obiettivo, come disse Totò Riina era di “rompere le corna” allo stato, bisogna dire che le corna se le sono rotte loro, i boss, seppelliti da anni di carcere duro o morti dietro le sbarre, come Provenzano e Riina.
La strage di via D’Amelio fu il momento di non ritorno, non c’era più spazio per pavidità e rassegnazione. In gioco non c’era solo la vita di tanti servitori dello stato, ma quella di tutti noi: fu tutto il paese ad avvertirlo, mosso da quel coraggio civile che noi italiani sappiamo tirare fuori nei momenti più tragici della nostra storia. E forse fu per questo che reagimmo. Ma in questa sacrosanta reazione vi furono non solo esagerazioni, ma una vera e propria distorsione complottista che serve più a mantenere la visibilità di qualche procuratore e garantire successi editoriali che a ricercare la verità. E la verità è che dopo le stragi Cosa Nostra ha subito la più grande sconfitta della sua storia e lo stato ha reagito. E che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono morti invano.