I numeri
Quanti profughi sono morti e quanti scomparsi negli ultimi 10 anni, le statistiche dell’IOM
Varrebbe la pena di prenderne nota: bisogna moltiplicare per due i numeri che suscitano le nostre deplorazioni.
Editoriali - di Iuri Maria Prado
Continuiamo a indugiare sul numero dei migranti, crescente ogni mese, morti nel tentativo di fuggire dai Paesi di provenienza. Decine di migliaia, ormai, solo negli ultimi dieci anni. Ma si tratta di statistiche indulgenti. Studi dell’International Organization for Migration (IOM) calcolano infatti che i morti recuperati rappresentano soltanto una quota rispetto a un totale ben più corposo: trentamila contro quasi il doppio, cinquantottomila.
La qualifica: “missing”, scomparsi. Varrebbe la pena di prenderne nota: bisogna moltiplicare per due i numeri che suscitano le nostre deplorazioni. Quelli come stracci intorno ai gusci ribaltati dei carnai galleggianti; quelli maciullati come polpi contro i nostri scogli; quelli in catasta sui barconi trainati verso il porto dai militari, lentamente, perché in quel carico non ci sono residui superstiti; quelli che infiliamo nei sacchi di plastica implotonati sulle nostre spiagge; tutti quelli che insomma recuperiamo morti, dopo non averli salvati, non sono neppure la metà di coloro che partono senza arrivare.
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Ma la contabilità effettiva è arricchita di dati anche più interessanti. Uno è talmente noto che passa per scontato: circa metà di quei quasi sessantamila è concentrata qui, nel mediterraneo. Ripugnante è poi il profilo dettagliatamente macabro di quelle rilevazioni. Settecento sono morti per causa “accidentale”. Novemila per combinazione di fattori o causa sconosciuta. Cinquemila per incidente stradale o per l’uso di mezzi di trasporto “azzardati”. Tremilacinquecento per “violenza” (aggressione, assassinio, ecc.).
Tremilatrecento per avversità metereologiche o per mancanza di rifugio, cibo o acqua. Millecinquecento per mancanza di assistenza medica. Infine, il numero prominente: trentacinquemila affogati. Pressoché tutta roba nostra, quest’ultima, gente cioè affogata nel pozzo mediterraneo tra le nostre coste e quelle dirimpettaie di partenza. Chissà a quale gruppo apparteneva il ragazzo preso dal terrore, che scavalcando i cadaveri dei compagni sul ponte della nave si buttava in acqua e scompariva. Affogato per impazzimento. Chissà in quale casella statistica è finita la bambina siriana ridotta a una cosa disidratata nelle braccia della madre, mentre la piccola sorella si abbeverava di mare credendo in quel modo di salvarsi. Categoria: “mancanza d’acqua”, ma l’immagine concreta è meno protocollare. Chissà in quale posta di quel bilancio è finito il bambino di un paio d’anni che un’altra madre ha composto prima di affidarlo alla corrente.
Morto di freddo: ma la classificazione “lack of shelter”, mancanza di riparo, rischia la vaghezza. E l’uso di mezzi di trasporto azzardati: non un’automobile sovraccarica finita in un fosso, ma il carrello di un aereo che stritola il ragazzino che vi si era nascosto, o la stiva che ne restituisce un altro surgelato a quarantacinque gradi sotto zero. Rendono meglio l’idea, questi fatterelli. Intanto il mare porta verso il Regno Unito l’ultima invenzione per risolvere il problema: un enorme carcere galleggiante per i migranti, cinquecento posti-carcere nell’attesa del disbrigo delle pratiche di deportazione.