Come in Rwanda

Ecco il modello Meloni: pagare dittatori e regimi per tenere prigionieri i migranti

Il modello Meloni è lo stesso di quello britannico adottato da Boris Johnson in Rwanda. Si pagano dittatori e regimi per tenere prigionieri i migranti

Editoriali - di Luca Casarini

4 Luglio 2023 alle 20:30

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Ecco il modello Meloni: pagare dittatori e regimi per tenere prigionieri i migranti

C’è stato un tempo nel quale “i paesi civilizzati” andavano in Africa a catturare uomini e donne, per ridurli in schiavitù e metterli al lavoro. Questo è il tempo invece dove gli stati e i governi sempre civilizzati, fanno di tutto per riportare in Africa donne, uomini e bambini che provengono da lì, spinti dalla migrazione forzata. Al tempo degli schiavi, nei mercati di esseri umani realizzati direttamente nei porti europei e americani, il prezzo veniva fissato in base alla corporatura, allo stato apparente di salute (si guardavano i denti, come ai cavalli o gli occhi, come al pesce quando lo compri al banco), e alla funzione.

Una “bestia maschio” da soma poteva valere molto, ma anche una bella “bestia femmina” da riproduzione, considerato anche l’uso per sé che ne avrebbe potuto fare il padrone, faceva incassare parecchio ai trafficanti di uomini. Oggi invece, merito della modernizzazione, il prezzo per un uomo, donna o bambino, è fissato in maniera standard su base nazionale. Ad esempio, per ogni essere umano che il Regno Unito consegna al Rwanda per detenerlo nel piccolo paese africano, è fissato il prezzo di 168mila sterline. Il dibattito pubblico inglese, sospinto anche dalla bocciatura da parte della Corte d’Appello inglese, di quello che viene definito dai giudici come un “programma disumano”, è molto più acceso se si parla degli aspetti economici: all’interno della stessa maggioranza del premier Sunak, figlio di immigrati e grande sponsor delle deportazioni di quelli di adesso, c’è chi si indigna per lo sperpero: tenere un rifugiato all’interno del Regno Unito costerebbe infatti trentamila sterline di meno!

L’Unione Europea, dopo qualche indignazione di rito sul progetto britannico sembra in realtà essere stata ispirata: la discussione, guidata dal governo italiano, con Tunisia e Libia è esattamente questa. Il piano europeo, sottoscritto in Lussemburgo dai ministri degli Interni dell’Unione, ha visto solo due paesi contrari, Polonia e Ungheria. Che, come si sa, eliminerebbero il problema migranti neri alla radice, con una “soluzione finale”. Dopo la ratifica del nuovo “patto per le migrazioni e l’asilo” uscito dal vertice lussemburghese, si potranno deportare “migranti irregolari, presenti sul territorio europeo” in “paesi terzi sicuri” fuori dai confini dell’Unione, in cambio ovviamente di lauti finanziamenti a questi stessi paesi, che dovranno istituire dei campi di detenzione per i deportati.

Vi è un’altra radicale differenza, tra il tempo in cui gli esseri umani andavamo a prenderli a casa loro, e questo nel quale invece paghiamo per liberarcene: nel primo caso, la “merce” doveva arrivare più sana possibile, perché si vendeva alla fine del viaggio. Oggi invece, se muoiono prima, sono soldi in meno da tirar fuori. Il “progetto Rwanda” non è di Sunak, l’attuale primo ministro inglese. È il suo predecessore Boris Johnson che l’ha ideato e ha tentato, senza successo a causa della forte opposizione delle organizzazioni per i diritti umani, della Chiesa e dei giudici, di attuarlo. Ma perché proprio il Rwanda? Per la grande disponibilità a entrare in questo nuovo business del traffico di esseri umani “legale”, da parte del suo presidente, il sessantatreenne Paul Kagame, considerato l’eroe che ha fermato, 27 anni fa, il genocidio di un milione di persone di etnia Tutsi e Hutu “moderati”, organizzato da milizie Hutu sostenute finanziariamente dalla Francia. Anche in questa storia terribile, il “mondo civile” c’entra eccome quindi.

Non solo la Francia, ma si pensi che già nel lontano 1924 il Belgio “riceve” in regalo il Rwanda dalla Società delle Nazioni. Per organizzare la colonia, i belgi scelgono i Tutsi come kapò, e gli Hutu come schiavi. Perché? I Tutsi hanno la carnagione chiara, e secondo i dettami della fisiognomica ottocentesca, risultano per questo “più affidabili” per i padroni bianchi. Gli Hutu, neri e tozzi di corporatura, sono le bestie da soma. La terza etnia presente nella regione, gli twa, sono pigmei. Per i padroni bianchi paragonabili alle scimmie della foresta. Il genocidio del 1994 viene da qui. Passa attraverso la cacciata dei tutsi dal Rwanda alla fine della dominazione coloniale belga. Paul Kagame, è il leader tutsi del Fronte Patriottico Ruandese, che si batte per il rientro dei profughi, che avviene ufficialmente nel 1993 con gli accordi di Arusha. Da quel momento le milizie Hutu pianificano il genocidio. Vengono creati e armati, con la complicità francese, gli “interahamwe” che significa “quelli che lavorano insieme”.

Vengono redatte liste di esponenti tutsi da uccidere; vengono acquistati in Cina, attraverso la ditta Chillington di Kigali, i machete, migliaia e migliaia, che serviranno materialmente a scannare donne, uomini e bambini. Viene creata “Radio Machete”, la “Radio e Televisione Libera delle Mille Colline” come la definiscono, che serve a coordinare e incitare gli hutu a “completare il lavoro” di sterminio degli “scarafaggi”. Gli hutu che si rifiutano di collaborare agli omicidi di massa villaggio per villaggio, vengono trucidati anch’essi. Kagame, con i tutsi, riesce a porre fine al massacro, nel luglio del 1994. Per dare la proporzione di ciò che è accaduto, si deve sapere che oltre un milione di persone sono state trucidate in soli cento giorni, con una media di quattrocento ogni ora.

Può un paese, uno dei più piccoli dell’Africa, dove è accaduta una tragedia simile meno di trenta anni fa, essere oggi il “luogo sicuro” nel quale deportare a forza profughi provenienti da ogni parte? Kagame, il presidente che governa da due decenni, dice di sì. “Il mio governo è motivato a fornire questa accoglienza dall’altruismo e dalla responsabilità morale”. Ma i critici non mancano anche se le voci dissidenti, come altri tutsi membri del Fronte Patriottico di Kagame, sono misteriosamente scomparsi, o ammazzati, come Patrick Karegeya, la cui storia è ben raccontata dal libro Do not disturb: the story of a political murder and an african regime gone bad, della giornalista inglese Michela Wrong. I detrattori sostengono che il motivo di questa disponibilità a fare da campo profughi per l’Europa, sia economico e di immagine.

“Gli accordi migratori con l’Occidente fanno parte della spinta del Ruanda a riciclare la propria immagine all’estero”, ha dichiarato al New York Times il professor Haastrup, docente di politica internazionale presso l’Università di Stirling, in Gran Bretagna. Per finanziare il progetto campi, tramite i programmi Onu sono già stati dirottati più di cento milioni di dollari, 140 milioni sembra siano già stati incassati dal Regno Unito, e il contratto triennale con la Danimarca per la deportazione di rifugati, sembra anch’esso molto sostanzioso. Per “vendere” il suo servizio, il governo di Kigali ha bisogno di presentare bene ciò che offre: sono stati organizzati dei tour con giornalisti e media internazionali, per far visitare il centro di Gashora, a circa 40 miglia a sud dalla capitale Kigali.

“Camere spoglie ma pulite, con letti matrimoniali” come scrive il New York Times. Per poi aggiungere: “Il centro è recintato. Ma gli ospiti ricevono tre pasti al giorno e possono legare tra loro preparando cibi tradizionali. Possono anche giocare a pallavolo”. Un club Mediterranee per deportati. Kagame, che alle ultime elezioni è stato rieletto per la terza volta con il 99% dei consensi, non ha organizzato invece la visita in un altro luogo. È situato nel quartiere Gikondo a Kigali e viene chiamato “Kwa Kabuga”.

Dal 2021 Human Rights Watch ne denuncia le condizioni disumane. Ci finiscono anche i bambini di strada, quando bisogna “ripulire” il centro città. Certo, non basta il tour promozionale per i giornalisti, per spiegare dove sono detenuti decine di migliaia di rifugiati del Burundi, Congo, Eritrea, Somalia, Sudan. Che sono già in Ruanda, ma nessuno mostra dove e in che condizioni. Giorgia Meloni, che dopo il disguido del blocco giudiziario delle deportazioni inglesi in Ruanda, ha subito offerto aiuto e solidarietà al premier britannico, vuole fare lo stesso, ma in Tunisia. In Libia lo ha già fatto Minniti, basta continuare. E quanto costerà un “negro” da rispedire in Tunisia? Saranno più economici del Ruanda?

4 Luglio 2023

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