La storia del quotidiano
Se il manifesto fosse andato male c’era un piano B: aprire un ristorante a Saturnia
Racconta Luciana Castellina: «Se con il manifesto fosse andata male avremmo tirato fuori quella vecchia idea. Magri e Rossanda chef, Pintor sommelier. Nome? Ovvio: il manifesto»
Editoriali - di Carmine Fotia

Ricordo però anche alcuni che non scrivevano, coloro che dovettero fare i lavori più difficili e meno appariscenti: Filippo Maone, artefice dello straordinario successo di diffusione della rivista e poi geniale architetto della diffusione del quotidiano, ovvero ciò da cui ne dipendono vita e morte; Ornella Barra, prima segretaria di redazione, il vero cuore di ogni giornale; Giuseppe Crippa, operaio di Bergamo, burbero e inflessibile amministratore dal cuore d’oro, con l’impossibile compito di gestire i pochissimi soldi e pagare i nostri stipendi eguali per tutti, prima equiparati a quelli degli operai metalmeccanici e poi tenuti al minimo sindacale del contratto dei giornalisti.
L’apertura del primo numero del quotidiano era di Ninetta Zandegiacomi: “Dai 200.000 della Fiat riparte oggi la lotta operaia”, e poi un reportage dalla Cina di un grande reporter che avrei in seguito conosciuto da vicino, K.S. Karol, compagno di Rossana Rossanda, egli stesso una leggenda vivente: polacco di nascita, un occhio di vetro e l‘altro di un azzurro vivo, capelli bianchi e impermeabile alla Philip Marlowe, da ragazzo era stato nell’Armata Rossa, un apolide ribelle che scriveva come un Dio, dietro il fumo delle sue gitanes senza filtro.
Nel primo numero il direttore Pintor scrive: “È aperta nel nostro paese una partita dal cui esito può dipendere la sorte del movimento operaio…se non fosse questa la nostra convinzione, non ci saremmo impegnati in un lavoro e in una lotta che hanno per scopo ultimo la formazione di una nuova forza politica unitaria della sinistra di classe. E non faremmo ora, questo giornale”. Tale, dunque, l’avevano pensato i suoi fondatori, ma le cose non andarono così e questo nodo si è spesso intricato producendo dolorose discussioni e divisioni, tra chi privilegiava la “forma giornale” e chi la “forma partito”. Nel 2021, per i cinquant’anni del giornale, intervistai per l’Espresso Norma Rangeri, che dopo 14 anni, attraversando e affrontando crisi economiche e dolorose rotture con i fondatori, ha appena passato il timone al più giovane Andrea Fabozzi.
Così Norma, con il suo bel caschetto di capelli neri a incorniciare un viso uguale a quello della ragazza che 50 anni fa per la prima volta varcò le porte del mitico Quinto Piano di via Tomacelli 146, dove aveva sede la redazione del giornale, mi raccontò la sua storia: “Ho incontrato il manifesto come gruppo politico tra il ‘71 e il ‘72, alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, a Roma. Per fare la tesi con Lucio Colletti avrei dovuto sapere il tedesco e per emanciparmi dalla famiglia avrei dovuto fare qualche lavoretto. Così capitò che una mia cara amica che lavorava alla segretaria di redazione del manifesto, mi trovò un posticino nella postazione dei dimafoni dove arrivavano gli articoli dei corrispondenti, a braccio o registrati, che io trascrivevo diligentemente a macchina con carta copiativa per i caporedattori. E ben presto il quinto piano di via Tomacelli diventò più importante dell’università, al punto che pur avendo finito tutti gli esami rinunciai a fare la tesi e a laurearmi per la disperazione della mia famiglia. Era successo che avevo incontrato un’altra famiglia, quella di Luigi Pintor, Lucio Magri, Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Aldo Natoli, Lidia Menapace”.
“I cenacoli intellettuali finiscono tutti male- mi aveva raccontato Luciana Castellina due anni prima, per i 50 anni della rivista – . Noi non volevamo fare gli intellettuali, volevamo fare una battaglia politica”. “Un giornale – mi disse la Rangeri – per vivere ha bisogno di una ragione sociale, deve rappresentare idee, bisogni, persone, deve avere, come si dice oggi, una vera community. Questo Dna il manifesto ancora ce l’ha, altrimenti non avremmo superato la micidiale prova dell’amministrazione controllata dopo il drammatico fallimento della cooperativa, fondandone una nuova e in salute. Altri giornali, che in questo mezzo secolo hanno provato la titanica impresa di un quotidiano nazionale, sono via via tutti morti della stessa malattia: l’improvvisazione verniciata di glamour, insomma sotto il vestito niente. Nonostante i nostri limiti e difetti, il nostro elisir di lunga vita è un po’ il segreto di pulcinella: siamo liberi e indipendenti, non abbiamo padroni e nemmeno padrini. Forse, proprio perché non apparteniamo a nessuna filiera di potere, in questo sistema di media, parlo soprattutto della televisione pubblica, il manifesto semplicemente non esiste”.
Come ogni forma della politica anche il manifesto ha conosciuto divisioni che spesso si sono trasformate in abbandoni: i più dolorosi quelli dei fondatori che però tutti, anche quelli che non ci sono più, erano tornati a scrivere per il giornale. Per i più giovani, invece, si è trattato di una fisiologica diaspora che li ha dispersi, spesso in posizioni importanti, nel mondo dei giornali che allora chiamavamo “borghesi”.
Ora questa storia è giunta a un tornante. Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco sono gli ultimi direttori che si sono formati alla scuola dei fondatori. Il cambio avviene mentre in tutto il mondo la sinistra, in ogni sua variante, affronta l’offensiva di una destra sovran-populista e deve decidere come reagire alla brutale aggressione della Russia all’Ucraina.
La tradizionale spinta pacifista che anima il manifesto non ha impedito a Norma Rangeri di assumere una netta posizione di sostegno anche con le armi alla resistenza ucraina. Più critica la posizione del condirettore Tommaso Di Francesco. Io, per il poco che vale, la penso come lei, ma il fatto di scrivere su un giornale che ha una posizione pacifista molto netta mi fa apprezzare la necessità di un dialogo con i pacifisti veri, cosa ben diversa dai pacifinti sostenitori di Putin. Norma e Tommaso sono stati non solo miei compagni, ma anche amici carissimi. Sono compagni non per ideologia ma perché con loro ho letteralmente diviso il pane e questo non si dimentica, anche quando si imboccano strade diverse.
E questo ha un valore politico, secondo me, perché ci parla di quei valori semplici che uniscono le persone di sinistra e che oggi sono spesso sopraffatte dalle ideologie, dalle burocrazie e dalle gerarchie politiche e che sono invece vive nell’animo di tante persone. La forza del manifesto è stata sempre l’ambizione di parlare a queste persone prim’ancora che ai vertici politici. A Tommaso e Norma un saluto affettuoso, a Andrea l’augurio di saper mantenere il manifesto come luogo libero e critico della sinistra.
P.S.: Le storie, tutte le storie, hanno le loro sliding doors e anche questa che vi abbiamo appena raccontato avrebbe potuto finire diversamente, mi rivelò Luciana Castellina: “C’era un piano B, se fosse andata male con la rivista: dal momento che Lucio e Rossana erano molto bravi a cucinare, avevamo individuato un posto, alle cascate di Saturnia, dove avremmo aperto un ristorante. Chef sarebbe stato Lucio, sous-chef Rossana, terzo chef Valentino, Luigi avrebbe fatto il sommelier, ed io avrei curato i rapporti internazionali e le pubbliche relazioni. Come l’avremmo chiamato? Che domanda: il manifesto, ovviamente”.
3/fine.