La storia del quotidiano

Lavorare al vecchio manifesto, un romanzo di formazione

Nel giornale scrivevano Umberto Eco, Federico Caffè, Stefano Rodotà, Vazquez Montalban e Dacia Maraini

Editoriali - di Carmine Fotia

29 Giugno 2023 alle 18:30

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Lavorare al vecchio manifesto, un romanzo di formazione

Lavorare allora al manifesto. Il cambiamento non riguarda solo la politica, ma anche il modo di vivere, che comporta la rinuncia dei pur modesti “privilegi” di cui godevano i rivoluzionari di professione.

Il racconto di Luciana Castellina: “Eravamo tutti ex-funzionari di partito, ci trovammo squattrinati e sopravvivemmo con i soldi dei compagni che erano parlamentari. Io vivevo a casa mia, ma alla salita del Grillo, che affaccia sui Fori, c’era un grande appartamento che costava poco perché era di proprietà del Pio Istituto di Roma, e che era stato trovato da Giuliana Giorgi, l’ex-moglie di Giancarlo Pajetta. Lì , in un grande salone dove si temevano le riunioni e in tre stanze, viveva una specie di comune di maschi: Lucio Magri, Filippo Maone, Eliseo Milani, cui poi, fino ai primi anni ’80, si aggiunsero altri compagni. Nel dicembre del 1969, ricordo Dario Fo che gioca a scacchi con Lucio quando arriva la notizia della strage di Piazza Fontana mentre a poche centinaia di metri, all’Altare della Patria, scoppiavano le bombe. Lì si insedia la redazione della rivista, retta dalla segretaria di redazione, Ornella Barra, che lo era stata anche a Critica Marxista”.

Una rivista e poi un quotidiano militanti, dunque, com’è scritto nel suo atto di nascita e nelle biografie dei fondatori, un gruppo di dirigenti e intellettuali comunisti riuniti attorno al leader della sinistra Pietro Ingrao. Eccoli: Rossana Rossanda, bellezza diafana e intelligenza raffinata, responsabile della commissione culturale; Luigi Pintor (fratello di Giaime, precocissimo intellettuale morto mentre cercava di attraversare le linee tedesche per unirsi alla resistenza italiana), giovane partigiano dei gap romani, gigante del giornalismo comunista; Luciana Castellina, dirigente dell’Unione Donne Italiane, giornalista militante, bellezza mediterranea statuaria e conturbante; Lucio Magri (che è stato per un lungo periodo il compagno di Luciana) ex-democristiano, una delle teste più raffinate del gruppo, bello come un divo del cinema, con i capelli precocemente imbiancati e gli occhi azzurrissimi, divorato da una passione politica struggente e morto suicida in Svizzera nel 2011.

Poi c’è Valentino Parlato, giovane e brillante economista espulso dalla Libia dagli inglesi perché comunista, che lavora alla commissione economica con Giorgio Amendola. Ci sono anche leader meno giovani: Aldo Natoli, medico, leader dei comunisti romani, che denuncia gli scandali della capitale e ispira l’inchiesta de L’Espresso: “Capitale Corrotta, Nazione Infetta”; Massimo Caprara, napoletano, già segretario personale del Migliore, come nel Pci veniva chiamato Togliatti. Un gruppo di comunisti liberi e critici, che pagarono di persona la loro scelta, rinunciando a ruoli importanti e a un futuro brillante, si avventura dunque nell’impresa pazzesca di fondare prima una rivista e poi un quotidiano senza soldi, senza partito, senza padroni.

In questi tempi di sinistre senz’anima, di politica senza passioni, di rancore iniettato nelle vene del paese, i protagonisti di quell’impresa, al di là del giudizio politico e storico, ci appaiono avvolti dall’aura del mito. E non solo a chi, come me, da giovane militante prima e da giornalista poi, ha avuto la fortuna di formarsi alla loro scuola, anche se poi ha preso, com’è naturale e com’è accaduto a tanti altri, strade diverse. Forse era tutto sbagliato? Si trattò, come si usa dire oggi, di ubriacatura ideologica? Luciana Castellina rispondeva così: “Mi ha detto Paolo Mieli: ‘sono stato felice perché sono uscito dalla solitudine, ho trovato gli altri e abbiamo fatto insieme delle cose’. È la scoperta della politica: uscire dalla solitudine, incontrare gli altri e diventare insieme protagonisti. Cinquant’anni dopo, ho il rimpianto perché quel grande patrimonio comunista fatto di passione, di moralità, di militanza, è stato poi gettato via”.

Uno stato di soggezione e ammirazione mi accompagnò nell’accostarmi ai fondatori del manifesto, prima della rivista e poi del quotidiano che si volle dire comunista in netta opposizione al comunismo reale e ai suoi caratteri oppressivi. Ricordo la mia prima partecipazione a un’assemblea del circolo del manifesto di Montesacro (il quartiere romano del mio precoce apprendistato politico) e i ricordi affiorano avvolti da un alone mitico, forse perché in quella prima assemblea al tavolo della presidenza c’era Vincenzo Migliucci, poi leader di Autonomia Operaia, che era “una stampa e una figura”, come direbbe il commissario Montalbano, con il manifesto del Che (quella con i capelli corti e senza basco) attaccato sul muro.

Sono entrato in redazione nel 1980 ma il manifesto era già entrato nella mia vita nel 1970 quando, studente quindicenne, cominciai a leggere e a diffondere la rivista omonima e dal 28 aprile dell’anno successivo il quotidiano. Dal 1970 al 1993 Il manifesto è dunque stato la mia casa e la mia vita: vi sono entrato che ero un adolescente, ne sono uscito che ero diventato un giovane uomo. Lo dico per avvertirvi che la mia è una ricostruzione di parte, pur senza alterare nulla dei fatti che vi sto raccontando. Il mio primo approccio con il quotidiano comunista è del 28 aprile del 1971, quando uscì il primo numero che diffusi nella mia scuola, avevo appena compiuto sedici anni.

Allora non c’erano Internet, Wikipedia, non c’erano le news ventiquattr’ora su ventiquattro, si imparava sul campo. Appena arrivato in redazione, nel 1980, ero un po’ presuntuosetto e Michelangelo Notarianni, allora condirettore, se non ricordo male, mi mise a scrivere le brevi. Dopo un po’, alle mie prime inchieste, Valentino Parlato mi insegnò il metodo : “Raccogli le idee, fai una scaletta e, soprattutto, consuma la suola delle scarpe”. Rossana stava nella sua stanza in fondo al corridoio a sinistra, avvolta in una penombra carismatica e circondata dai suoi libri, che t’intimidivi solo a entrarci. In fondo a destra, invece, c’era la stanza di Luigi Pintor, inarrivabile maestro di scrittura.

Non volle mai imparare a usare il computer, sedeva davanti alla sua vecchia Olivetti meccanica e batteva sui tasti con lentezza esasperante: tic…toc…tic…toc. Ne uscivano editoriali brevi e limpidi, acuminati come frecce. “In trenta righe si può raccontare la Divina Commedia”, ci diceva. Era inoltre uno straordinario titolista: malgrado la sua idiosincrasia per le tecnologie era già perfetto per Twitter! Per tutti coloro che vi sono passati , dunque, pur se poi dispersi ovunque, il manifesto è stato un vero e proprio romanzo di formazione. Lavoravi in un giornale nel quale, cito alla rinfusa, scrivevano Umberto Eco, Federico Caffè, Stefano Rodotà, Manuel Vazquez Montalban, Dacia Maraini e che pubblicava interviste a Jane Fonda, Salvador Allende, Jean Paul Sartre, Otelo De Carvalho.

29 Giugno 2023

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