La storia del quotidiano
Il manifesto cambia: chi è Andrea Fabozzi il nuovo direttore di via Tomacelli
Auguri al nuovo direttore! È il cinquantenne Andrea Fabozzi, notista politico, in redazione dal 2001. Norma Rangeri lascia la direzione del quotidiano dopo quattordici anni
Editoriali - di Carmine Fotia
Il manifesto ha un nuovo direttore: è il cinquantenne Andrea Fabozzi, notista politico, al giornale dal 2001. Quando Piero Sansonetti mi ha chiesto di scrivere sul cambio alla direzione – deciso dall’assemblea dei lavoratori del giornale in seguito alla volontà espressa da Norma Rangeri, dopo 14 anni da direttora e da Tommaso Di Francesco, dopo 8 da con-direttore, di lasciare l’incarico – mi è venuto in mente che non partecipo a un’assemblea di quel giornale da trent’anni esatti.
Comprenderete dunque se per raccontarvi un po’ della Grande Storia del manifesto partirò proprio dalla mia piccola storia. E dai miei ricordi della meravigliosa vita assembleare e libertaria del quotidiano comunista, piena di discussioni infinite, incontri con personalità straordinarie e grandi idee e punteggiata da sigarette, alcool (per i più vecchi) e canne (per i più giovani) – attenta Meloni mi sto autodenunciando! – tutte cose che rimpiango oggi in piena era proibizionista e salutista. (Per gli appassionati di serie tv: avete presente The Marvelous Mrs Maisel, che racconta la storia di una comica americana trasgressiva, perseguitata e di enorme successo?).
L’assemblea, cui partecipano tutti i lavoratori e non solo i giornalisti, è stata la nostra dannazione ma anche la nostra salvezza, anche per chi, come me, è andato via nel 1993 per assumere la direzione di Italia Radio, l’emittente del Pds. Dannazione, perché quando sei in cinquanta in una stanza piena di fumo per decidere su cosa apire il giornale diventa difficile anche solo “fare il timone” del giornale. Salvezza, almeno per me, perché crescere e formarsi in un luogo che pratica l’eguaglianza ti fa capire come le gerarchie e le differenze retributive, anche quando moti-vate e necessarie, vanno continuamente sotto-poste a critica.
A un certo punto fui incaricato, insieme a Mauro Paissan, di elaborare la prima bozza di quello statuto che – immagino con molte modifiche – regge ancor oggi la vita del giornale. Era un tentativo di regolare la vita assembleare e le modalità di elezione della direzione nel momento in cui bisognava pensare alla successione alle madri e ai padri fondatori. Era necessario passare dal carisma alla legittimazione democratica. Fu un passaggio difficile e complicato nel corso del quale si scontrarono anche idee diverse sul futuro del giornale ed ero tra coloro che ritenevano che fosse il momento di togliere dalla testata quel riferimento al comunismo. Discussione che, a quanto capisco, continua ancor oggi. La storia del quotidiano il manifesto comincia prima del quotidiano.
Il ’69, l’anno in cui esce il primo numero della rivista, si apre con una giovane vita sacrificata: è quella di Ian Palach, lo studente che si dà fuoco a Praga in piazza San Venceslao un anno dopo l’invasione sovietica, ben presto dimenticata. Ecco il momento della fondazione della rivista nel racconto di Luciana Castellina che raccolsi per l’Espresso : “È in quel momento che decidiamo di fondare la rivista, il cui primo numero uscirà il 23 giugno. Il nome della rivista lo trovammo seduti sul muretto qui sotto casa mia. Eravamo io, Rossana, Lucio, Luigi. Dapprima Lucio pensava a un nome raffinato, Il Principe con l’evidente richiamo a Machiavelli, ma poi ci venne in mente il manifesto, anche se ci sembrava un po’ arrogante prendere il nome del libro simbolo del comunismo. Poi però pensammo, ma sì facciamolo! Anche perché manifesto voleva dire anche Tazebao, ovvero lo strumento di propaganda usato nella rivoluzione culturale cinese, e rappresentava anche la nostra richiesta che il dissenso fosse, appunto, manifesto”.
Nasce così la rivista, sobria ed elegante, disegnata da Giuseppe Trevisani, che era stato il successore di Abe Steiner al Politecnico di Elio Vittorini, con quella testata tutta in minuscolo e con quel particolare carattere che, diremmo oggi, diventa un brand di successo. Troppo successo, forse. Il primo numero, diffuso in edicola dall’editore Dedalo, vende più di 50.000 copie. La rivista è diretta da Lucio Magri e Rossana Rossanda, scrivono Luigi Pintor, Vittorio Foa, Ninetta Zandegiacomi, Daniel Singer, Enrica Collotti Pischel, Edgar Snow e K.S.Karol, e Lucio Colletti, tra gli altri. Jean Paul Sartre concederà una lunghissima intervista a Rossana Rossanda.
Nel primo numero della rivista si delineano già quelli che saranno i contenuti del quotidiano: attenzione alle lotte operaie, al movimento studentesco, grande apertura al mondo, molto interesse per tutto ciò che si muoveva fuori dall’orbita sovietica (da qui l’attenzione alla Cina e la disattenzione per l’aspetto oscuro e i crimini della rivoluzione culturale), poi, via via, nel corso dei mesi e degli anni successivi, l’incontro con il femminismo, l’ambientalismo, i diritti civili, i nuovi canali dell’immaginario collettivo.
Nel partito si apre un processo che ricorda gli anni bui dello stalinismo: coloro che rifiutano l’abiura, vengono cacciati, dal Comitato centrale fino all’ultima sezione. Non li difende neppure Ingrao, il leader con cui avevano rotto al dodicesimo congresso. Se ne pentirà amaramente, come anche Enrico Berlinguer che favorì poi il rientro nel partito a metà de-gli anni ’80, gestito proprio da quell’Alessandro Natta che aveva presieduto il tribunale dell’inquisizione comunista (per una ricostruzione più accurata Unire è difficile di Guglielmo Pepe e Da Natta a Natta di Aldo Garzia).
Rossana Rossanda ha ricordato così la rottura: “L’uscita della rivista, e il suo clamoroso successo, spezzavano, lealmente ma fuori di ogni disciplina, il meccanismo. La nostra scommessa era di legittimare nel Partito una discussione di fondo sui temi che erano maturati nel decennio Sessanta, culminati nel ‘68 degli studenti e nel precipitare dell’autunno caldo del ‘69. Si apriva una fase riformista? E se sì, quale era la collocazione che il Pci doveva assumere in questo scenario? Esso avrebbe favorito un avanzamento del movimento operaio o costituiva un pericolo di assorbimento delle masse fino allora combattive? Il capitalismo italiano restava vecchio, miope e fascisteggiante o si sarebbe ammodernato anch’esso, capace di innovazione e di una contrattualità meno repressiva?”.
Ricordava Luciana Castellina, che allora militava nella storica sezione romana di Ponte Milvio, quella di Berlinguer: “Fui radiata anche con il voto favorevole di Giuliano Ferrara che mi chiede ancora scusa. Ero stata mandata via dal partito nel quale avevo militato per 25 anni, fu come se mi avessero buttato dalla finestra, ma invece di sfracellarmi al suolo atterrai sul ’68. E il ’68 ci accolse. Fu un tempo straordinario e il rimpianto è che allora di quella storia il Pci non capì nulla”.
(Fine prima puntata)