Le riforme Costituzionali
Se il Parlamento lavora bene il governo è più stabile
La legge elettorale è una legge ordinaria. La riforma partorirebbe dunque, dal punto di vista della procedura, un topolino: basterebbe la maggioranza in parlamento.
Politica - di Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino
Il progetto di riforma costituzionale era cominciato con una vaga parola d’ordine, presidenzialismo, e con due obiettivi concreti: stabilità dell’esecutivo e incremento dei poteri del vertice di questa funzione dello stato (il governo, nel senso stretto di questo termine). È chiaro che i due aspetti sono in qualche modo legati tra loro e sono in realtà due facce dello stesso problema. Infatti, un governo forte ma instabile non è particolarmente utile, poiché la sua breve durata gli impedisce di agire efficacemente.
D’altro lato, un capo dell’esecutivo stabile, che però non è in grado di governare (in assenza di una maggioranza, necessaria a tale scopo in ogni regime parlamentare) finisce col somigliare a un re fannullone. Appena si è cominciato a riflettere sui sistemi in cui il capo dello stato (Presidente) viene eletto direttamente dai cittadini, ci si è resi conto che in assenza di altre condizioni indipendenti dalla struttura costituzionale (sistema dei partiti, cultura politica, ecc.), questo non è in grado di governare (si veda il caso presente della Francia) o ha grandi difficoltà a farlo (come ora negli Stati Uniti). Mentre più forti e stabili sono il primo ministro inglese e il cancelliere tedesco.
Abbandonati i presidenzialismi, anche grazie alla straordinaria reputazione di Sergio Mattarella, è intanto apparsa l’idea, senza significativi precedenti (l’unico noto è stato presto lasciato perdere, in Israele), di fare eleggere direttamente il primo ministro dai cittadini. Questo però necessita di una maggioranza in parlamento (visto che nessuno pensa di abolire quest’ultimo) altrimenti si ritrova nella stessa condizione del re travicello di cui sopra. Il problema diventa allora quello del nesso fra il premier e il parlamento e, di conseguenza, quello della legge elettorale che produce quest’ultimo. Riccardo Mazzoni sul Tempo sostiene che il sistema elettorale detto Italicum, di cui Denis Verdini fu uno degli ispiratori, potrebbe risolvere i problemi di cui sopra. La sua introduzione non richiederebbe alcuna riforma costituzionale: la legge elettorale è una legge ordinaria. La riforma partorirebbe dunque, dal punto di vista della procedura, un topolino: basterebbe la maggioranza in parlamento.
Ma ci sono due ostacoli. Il primo è che il nome del candidato premier sulla scheda della coalizione (alternativa alla elezione diretta, che non è chiaro come sarebbe collegata a quella dei parlamentari) non impedisce che la coalizione si rompa – si sapeva benissimo che Berlusconi o Prodi sarebbero stati primo ministro se la loro coalizione avesse vinto. Ma esse non resistettero alle tensioni interne fra gli alleati. Il secondo è che la destra oggi non ha alcun interesse a cambiare la legge elettorale a un turno solo che la vede favorita. Va precisato che la Consulta nella sentenza un po’ macchinosa 35/2017 bocciava la seconda versione del detto Italicum perché assegnava il premio di maggioranza anche ad una sola lista che avesse ottenuto al primo turno almeno il 40% dei voti, se fosse stata la più grande minoranza.
Non rifiutava il ballottaggio in quanto tale. Si può avere una ottima opinione dell’Italicum, ma non sembra l’uovo di colombo, bensì solo una riforma elettorale che di per sé non rafforza particolarmente i poteri del premier e nemmeno garantisce una maggiore stabilità di quella garantita della legge Rosato. Si limita a fare l’economia di una riforma costituzionale. Questa però potrebbe concentrarsi su un tema più importante, anche se più tecnico e meno attraente perché non si basa su slogan.
Si ripete come una giaculatoria il riferimento all’ordine del giorno Perassi, il quale nella seduta della Seconda sottocommissione per la costituzione del 4 settembre 1946 suggeriva: “l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Questi dispositivi potrebbero avere a che fare con la formalizzazione di un monocameralismo di fatto, per ridar vita a un parlamento che ormai non è più in grado di lavorare ed è ridotto ad un votificio che conferma i decreti-legge del governo. E prevedere anche la possibilità per il primo ministro di avere, come il cancelliere tedesco, una preeminenza nei confronti degli altri membri del governo.
Ma anche con la riscrittura dei regolamenti parlamentari: in un sistema parlamentare in cui le camere rappresentative non funzionano bene queste intralciano anche il lavoro del governo ed il proprio. I cittadini elettori, con il loro voto, non possono risolvere questi problemi, che sono legati al funzionamento interno alle relazioni fra i rappresentanti e l’esecutivo che essi sostengono attraverso la fiducia. Fa dunque bene il ministro Casellati a prendere un po’ di tempo di riflessione prima di formalizzare una proposta, la quale dovrà poi essere costruttivamente discussa con l’opposizione, il cui compito non può ridursi in questo caso a dire solo di no, ma non può che essere costruttivo.