L'incontro impossibile
Il Paese delle riforme a casaccio: confuse, fuori luogo e di parte
La revisione del Titolo V agli inizi del 2000, il neocentralismo del tentativo renziano, di nuovo l’autonomia differenziata mentre i vincoli europei diventano sempre più stringenti. Italia vittime delle bandierine di parte
Editoriali - di Alessandro Morelli, Giovanni Moschella
Se c’è un tratto che contraddistingue il riformismo del nostro paese, è il suo essere perennemente in ritardo rispetto ai problemi ai quali dovrebbe dare risposte. È vero che l’intervento del legislatore è spesso frustrato dalla rapidità dei mutamenti sociali, specialmente quando questi sono indotti dall’evoluzione tecnologica, che ha luogo in tempi ben più rapidi di quelli richiesti dai processi di produzione normativa. Basti pensare alla fatica dei decisori pubblici (a cominciare dall’Unione Europea) nel rincorrere i progressi dell’intelligenza artificiale.
In Italia però il riformismo sconta un ritardo endemico anche in campi non soggetti alle trasformazioni tecnologiche. Basti pensare alla riforma del Titolo V della Costituzione, realizzata in due tempi (nel 1999 e nel 2001), che ampliò notevolmente gli spazi dell’autonomia regionale proprio quando nel dibattito pubblico iniziava – e a ragione – il declino del mito federalista. La crisi finanziaria e poi economica del 2007-2008 e quelle che sono seguite hanno determinato un mutamento di paradigma nella narrazione riformista, incoraggiando la presentazione di progetti neocentralisti, fino al tentativo di riforma promosso dal Governo Renzi, naufragato con il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.
Il processo di attuazione dell’autonomia differenziata, che di quella riforma è figlia, rischia di risultare ancora una volta fuori tempo massimo, a fronte dei gravosi vincoli finanziari imposti dalla governance europea, che potrebbero privare di effettività la stessa autonomia potenziata alla quale aspirano le regioni del Nord. Si avverte insomma un costante disallineamento tra progetti di riforma e concrete esigenze istituzionali. In particolare, restringendo il campo d’analisi alle recenti proposte riguardanti la forma di governo, tutte le opzioni oggi in campo (semipresidenzialismo, premierato, cancellierato, mero potenziamento dell’Esecutivo) muovono dall’assunto che il Governo necessiti di una maggiore legittimazione, come appunto quella che gli deriverebbe dall’elezione popolare, o quantomeno di un rafforzamento dei suoi poteri.
Un’idea che nel dibattitto pubblico si trascina stancamente da decenni e che però continua a essere riproposta senza tenere conto che, nel frattempo, il contesto politico-istituzionale è radicalmente cambiato. Il Parlamento vive una crisi profonda e forse irreversibile, anche per un deficit di rappresentatività al quale danno un contributo decisivo meccanismi distorsivi della volontà degli elettori, come le liste bloccate e le candidature multiple, entrambe previste dall’attuale legge elettorale. Le Camere, i cui componenti sono stati ridotti di un terzo nel 2020 senza che alcun vantaggio sia derivato alla loro funzionalità, si limitano ormai da tempo a ratificare le decisioni dell’Esecutivo, convertendo decreti-legge o approvando deleghe legislative.
Il Governo è dunque il dominus indiscusso delle dinamiche di produzione normativa e gode di una posizione di supremazia in tutti gli altri procedimenti decisionali: lo si è visto nella gestione dell’emergenza sanitaria determinata dalla diffusione del Covid, nella definizione dei contenuti del Pnrr, nelle decisioni sulla fornitura di armi all’Ucraina, nella negoziazione con le Regioni per l’attuazione del regionalismo differenziato.
Se dunque si guarda alla reale dialettica tra legislativo ed esecutivo non si rinviene alcuna esigenza di rafforzamento del ruolo e delle funzioni di quest’ultimo. Né un siffatto bisogno emerge dal versante dei rapporti con le Regioni, le quali, dal canto loro, sfruttano in misura esigua i propri poteri legislativi e non partecipano al procedimento di formazione delle leggi statali che le riguardano, mancando, al momento, una Camera delle autonomie territoriali. Anche il sistema delle Conferenze, unica sede istituzionale di raccordo tra gli enti territoriali, vede una posizione di netta supremazia del Governo centrale. Insomma, appare oggi perfino visionaria la tesi che sostiene la necessità di rafforzare i poteri dell’esecutivo.
Certo, si potrebbero invertire i termini del discorso, sostenendo che l’elezione diretta del governo servirebbe a legittimare questo surplus di potere dell’esecutivo acquisito nei fatti. Un simile ragionamento, tuttavia, darebbe per scontato che fenomeni patologici come quelli richiamati, magari considerati espressione di una presunta “Costituzione materiale”, debbano essere assunti acriticamente e perfino istituzionalizzati, senza che peraltro si proceda a una seria analisi dell’impatto che una siffatta riforma avrebbe sull’assetto dei contropoteri e sul sistema delle garanzie costituzionali.
Rimangono in ombra le questioni della marginalizzazione e della crisi di rappresentatività del Parlamento, nonché quella del declino del sistema partitico e della politica nel suo insieme, di cui il crescente astensionismo è una spia allarmante. Questioni per affrontare le quali occorrerebbero adeguati interventi riformatori sulla legge elettorale al fine di ripristinare il potere di scelta degli elettori, nonché una disciplina volta ad assicurare tanto l’effettivo concorso dei cittadini alla determinazione della politica nazionale attraverso i partiti quanto la democraticità interna di questi ultimi.
L’autoreferenzialità della politica impedisce però di affrontare i nodi più problematici, condannando il discorso sulle riforme a una condizione paradossale ben nota ai costituzionalisti. Una spinta riformista diversamente orientata potrebbe provenire forse dall’esterno del sistema partitico, dalle forze sociali più progressiste, a condizione che queste ultime, diffidando da soluzioni populiste, sapessero coniugare l’anelito al cambiamento con la consapevolezza della complessa realtà su cui occorre intervenire.
* Docenti ordinari Istituzioni di diritto pubblico Università di Messina