Le riforme Costituzionali

Presidenzialismo, perché un premier eletto non è la panacea a tutti i mali

Pensare che un rapporto diretto fra cittadini e capo dell’esecutivo possa magicamente, e aggirando i partiti, garantire stabilità dell’esecutivo e governabilità è un’illusione. Guardate la Francia e l’America

Editoriali - di Renato Mammnheimer, Pasquale Pasquino

2 Giugno 2023 alle 14:00

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Presidenzialismo, perché un premier eletto non è la panacea a tutti i mali

Ha ragione Sabino Cassese a sottolineare, in un articolo apparso il 30 maggio su Il Riformista, che quando si parla di riforme, prima di avanzare (vaghe) proposte, sarebbe necessario chiarire bene quali sono i problemi e le difficoltà dello status quo che si cercano di risolvere o almeno di alleviare.

Dopo le ultime elezioni è riapparso, come sappiamo, il fiume carsico delle riforme costituzionali, un tema ricorrente che oggi la maggioranza ed il governo ripongono all’ordine del giorno. Esiste ormai un abbastanza ampio consenso circa la necessità di un aggiornamento della costituzione della Repubblica. Ma uno stravolgimento della forma parlamentare della stessa sembra al tempo stesso difficile e poco utile e non adatto a risolvere i problemi che intralciano il governo del nostro paese.

Vi è innanzitutto una sopravvalutazione della possibile efficacia di una riforma della costituzione. C’è molto da riformare che ha a che vedere con i rami bassi, ma per niente irrilevanti, dello stato. Pensare invece che la riforma dei rami alti, creando un rapporto diretto fra i cittadini e il capo dell’esecutivo, possa magicamente, da sola e aggirando i partiti politici, garantire stabilità dell’esecutivo e più efficiente governabilità è in larga misura una illusione. Si consideri al riguardo, che due democrazie che sono caratterizzate dalla elezione diretta del presidente, quella americana e quella francese, per ragioni diverse, vedono oggi grandi difficoltà a governare il loro sistema politico.

In America perché la polarizzazione estrema dalla società rende molto difficili i compromessi in un ordinamento che, se non consegna allo stesso partito i tre organi titolari del potere legislativo (la Camera dei rappresentanti, il Senato federale e il Presidente, tutti eletti e indipendenti gli uni dagli altri), invece di condurre a un governo forte (come nel caso appena considerato) rischia, in caso di governo diviso (quando nessuno dei due partiti controlla i tre organi) di paralizzare le decisioni politiche (interne). Come si è visto di nuovo in questi ultimi giorni durante il faticosissimo compromesso fra Biden e i Repubblicani.

In Francia, a sua volta, perché se il presidente non ha la maggioranza nell’Assemblea nazionale è certo stabile nel suo mandato, ma non può governare, e non può governare nemmeno il primo ministro, come sta accadendo, a meno che quest’ultimo non abbia una sua maggioranza (si chiama coabitazione), la quale riduce il Presidente nel migliore dei casi al ruolo di ministro degli esteri (a metà). Due regimi schiettamente parlamentari, come il Regno Unito e la Germania, hanno governi molto stabili. Nel primo paese, grazie ad un secolare sistema elettorale che, con pochissime eccezioni, assegna ad uno dei due grandi partiti la maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni.

Nel secondo, dove nonostante un sistema elettorale opposto, perché proporzionale, i governi di coalizione e i primi ministri sopravvivono anche a mutamenti di maggioranze in Parlamento. Helmut Kohl e Angela Merkel sono stati entrambi capi del governo tedesco ciascuno per ben 16 anni. La fragilità dei governi italiani, la loro instabilità, che ha caratterizzato il nostro sistema politico sia ai tempi della legge proporzionale, sia quando sono state introdotte, a partire dal 1993, varie leggi di impianto più o meno maggioritario, dipende dalla circostanza che i nostri sono stati tutti e resteranno verosimilmente governi di coalizione.

Che la coalizione si formi prima delle elezioni o dopo non da alcuna garanzia di stabilità dell’esecutivo, poiché un membro della medesima può sempre rompere l’accordo. Lo si è visto innumerevoli volte, per ricordare solo esempi recenti, dopo la fine della legge elettorale proporzionale, con Bossi nel primo governo Berlusconi, con Salvini nel primo governo Conte, con Renzi nel secondo, e con Conte nel governo Draghi. Come sappiamo, esistono norme che possono in parte limitare la capacità dei partiti a rompere le alleanze in Parlamento, anche se non esiste alcuna ricetta garante della stabilità. Anche perché se mai esistesse (al di fuori delle dittature) essa distruggerebbe la natura stessa del parlamentarismo che vuole l’esecutivo responsabile dinanzi alla maggioranza parlamentare.

Se non vi fosse alcuna possibilità per i rappresenti eletti di sfiduciare l’esecutivo, la funzione di controllo del parlamento scomparirebbe. Esistono però strumenti di utile relativa stabilizzazione dei governi. Il voto di sfiducia costruttivo impedisce le crisi al buio. Ma si limita a paralizzare il governo che ha perso la fiducia, a meno che non vi sia un partito di centro, come ha fatto più volte in passato il Partito liberale tedesco, che può dar vita ad un governo alternativo a quello sfiduciato alleandosi con l’opposizione al governo con il quale ha cooperato in passato.

La possibilità di dare al primo ministro il potere di sciogliere il parlamento può scoraggiare coloro che sono tentati di portare il paese alle urne per ragioni di “patriottismo di partito” : io, partito X, faccio cadere il governo perché posso avere vantaggi in un possibile nuovo diverso governo di coalizione o con nuove elezioni (se così dicono i sondaggi sulle intenzioni di voto e io mi fido dei medesimi). Lo stesso primo ministro potrebbe, peraltro, sciogliere il parlamento perché questo è nei suoi interessi – come è possibile nel Regno Unito e in Spagna. Se teniamo conto di tutto questo, capiamo che solo una impervia riforma favorevole al patriottismo nazionale rispetto a quello dei partiti e una cultura del compromesso in vista del bene comune (in particolare per quanto riguarda l’economia) possono stabilizzare il governo.

Questo non vuol dire affatto che le riforme non vadano fatte, al contrario. Se non ci aspettiamo soluzioni magiche, che è poi l’illusione delle riforme radicali, grazie ad accorgimenti che migliorano il rapporto parlamento/ governo, a cominciare dallo snellimento dei lavori di un disfunzionale bicameralismo barocco e ripetitivo che ne hanno ridotto spesso il ruolo a quello di un organo di approvazione quasi forzata dei decreti-legge, è solo a queste condizioni che sarà possibile rendere migliore il governo del paese, che la sola funzione di una riforma istituzionale.

Senza dimenticarci delle modifiche necessarie dei regolamenti parlamentari – di cui si parla poco perché di natura tecnica per il grande pubblico dei non addetti, eppure decisivi per il buon funzionamento dell’organo fondamentale di un sistema parlamentare, senza il cui ben operare nessun governo liberal democratico può funzionare. Poi una volta prese le decisioni, bisognerà implementarle.

E qui si apre il capitolo niente affatto meno decisivo della pubblica amministrazione. Le leggi, a differenza delle idee di Hegel che erano supposte avere mani e piedi, viaggiano, diventano governo reale in base al lavoro di una amministrazione efficiente e competente. E questa per l’Italia è una sfida ancora più difficile, ma non meno necessaria.

di: Renato Mammnheimer, Pasquale Pasquino - 2 Giugno 2023

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