Il post-Berlusconi
L’eredità di Berlusconi finisce in mano alla Meloni, che il Cav odiava…
Le carte sono in mano a Giorgia che di liberale e di liberista non ha nulla. E la sinistra che fa? Boh
Editoriali - di Paolo Franchi
Giurerei che a Silvio Berlusconi sia doluta assai, in questi ultimi mesi, l’idea di dover lasciare in eredità alla destra-destra la costruzione politica cui aveva cominciato a mettere mano ventinove anni fa, al momento della discesa in campo.
Perché era un realista, e forse anche un iper-realista, il venditore di sogni Silvio Berlusconi, e dunque sapeva (“non poteva non sapere”, direbbero le procure che gli mossero guerra rappresentandolo come il Nemico Pubblico Numero Uno) che non esiste una sola ragione per la quale Forza Italia, già ridotta ai minimi termini, dovrebbe sopravvivergli per svolgere in suo nome quella funzione temperatrice degli animal spirits ormai dilaganti a destra che da molto tempo neanche lui riusciva ad esercitare.
Fino a quando ha avuto un minimo di forze, però, non ha smesso di far trapelare nei confronti di Giorgia Meloni, e pure di Matteo Salvini, un fastidio quasi di pelle, esacerbato da una frustrante consapevolezza della propria impotenza a invertire la rotta e dare un segno diverso (più moderato, più liberale, più popolare, meno oltranzista sulla guerra: fate voi) alla coalizione. Può darsi, anzi, è altamente probabile che Berlusconi, animato com’era da una presunzione di (quasi) immortalità, abbia evitato di mettere troppo a fuoco il concetto. Ma da dieci anni e passa il centro-destra che aveva inventato lui non esisteva più: o meglio, l’elettorato era, a grandi linee, lo stesso, ma al suo interno, e sempre in danno di Forza Italia, ridotta al rango di entità politica residuale, sono venuti cambiando radicalmente i rapporti di forza, a vantaggio prima della Lega, poi di Fratelli d’Italia.
A Berlusconi sono rimasti, certo, gli onori dovuti al Padre Fondatore. Ma il colpo di genio del 1994, senza il quale non si capisce nulla del terremoto che ha squassato irrimediabilmente la tradizionale morfologia politica e sociale del Paese, è stato consegnato al passato, materia ancora utile per le ricostruzioni degli storici e le rievocazioni dei giornalisti più attempati, non più fonte di ispirazione. Gli eredi dei partiti sdoganati all’epoca dal Cavaliere, la Lega di Umberto Bossi e il Msi (poi Alleanza nazionale) di Gianfranco Fini progressivamente si sono emancipati dalla tutela sempre meno stringente di Berlusconi, e si sono messi in proprio. Perché gli anni passavano, certo, e la leadership berlusconiana si appannava, anche a causa dei non straordinari risultati conseguiti dai governi di centro-destra.
Ma soprattutto perché cambiavano in profondità l’Italia e gli scenari internazionali. La lotta politica e sociale, quando c’é stata, si è incardinata sempre meno sull’antitesi tra una destra neo conservatrice e una sinistra a grandi linee socialdemocratica, come era stato ancora per tutti gli anni Novanta, sempre più su uno scontro tra “basso” e “alto”, popolo” (non meglio identificato) contro élite, periferie contro Ztl. Altrove (penso alla Francia) qualcuno ha provato, con alterni successi, a fare i conti da sinistra con questa nuova realtà. In Italia, una sinistra sempre più schiacciata sull’ establishment, e incapace di archiviare la prospettiva di liquidare per via giudiziaria i conti con l’avversario, se l’è presa con il sovranismo e il populismo dilaganti, e ha indicato in Berlusconi il populista per antonomasia, di più, l’inventore del populismo all’italiana. In parte ha colto nel segno.
Ma solo in parte. Perché il populismo “antipolitico” di Berlusconi (l’Italia del fare contro il teatrino della politica, il taglio delle tasse, il milione di nuovi posti di lavoro, il superamento dei lacci e dei lacciuoli che impedirebbero il rigoglioso sviluppo dell’iniziativa privata, persino il messaggio delle sue reti tv) era empatico, ottimistico, sin troppo scanzonato e si rivolgeva in primo luogo al popolo grasso, o aspirante tale: ce l’ho fatta, eccome, io, dammi una mano a combattere da quel grande imprenditore di successo che sono l’oppressione dello statalismo “comunista” e vedrai che ce la farai pure tu, anche se, si capisce, in misura molto ma molto inferiore.
Il populismo (continuo per comodità a usare questa parola passpartout, che pure andrebbe sottoposta a una critica radicale) di Giorgia Meloni, al contrario, era ed è aggressivo, e si è rivolto (e continua a rivolgersi) soprattutto a un popolo minuto investito da una crisi economica e sociale senza fine, che si sente privato del futuro e si arrocca a difesa della sua sicurezza e della sua stessa identità, vellicandone le comprensibili paure. Per dirla in estrema sintesi. Berlusconi non si faceva problemi a varare leggi ad personam, o a infischiarsene bellamente di un conflitto di interessi grande come una casa, ma non lanciava allarmi sui rischi di ”sostituzione etnica”; poteva dire, e diceva, castronate sul confino fascista, paragonandolo a una villeggiatura, ma pure commuoversi sentendo parlare in tv Fausto Bertinotti dei sette fratelli Cervi, e chiedergli di fargli conoscere papà Alcide, nonostante questi fosse morto da un pezzo.
Giorgia Meloni si fa un vanto, anche giustamente, di “non essere ricattabile”, conflitti di interesse non ne ha, a differenza di Berlusconi, che prometteva a tutti la pacchia dietro l’angolo, ha vinto le elezioni con la parola d’ordine: la pacchia è finita. Ma di liberal – liberista, seppure nella particolarissima accezione berlusconiana, non ha mai avuto e non avrà mai un bel nulla, e se ne vanta, così come non ha nulla a che fare, con la sua storia personale, con le tradizioni politiche (quella democristiana, quella socialista, quella laica) che il Cavaliere seppur strumentalmente assicurava di voler reinverare. Insomma Berlusconi ha improntato di sé (nel bene e nel male, come si dice in questi casi) gli ultimi trent’anni della storia repubblicana, ma era da un pezzo, politicamente parlando, sopravvissuto a se stesso, e faticava persino a riconoscersi (basti pensare al tema, cruciale, della guerra) nel nuovo mondo emerso giusto nei tempi in cui, sloggiato da palazzo Chigi, si ritrovava, condannato ai servizi sociali, a raccontare barzellette agli ospiti di una casa di riposo. La, pardon.
Il presidente del Consiglio cammina coi tempi nuovi, con la sua destra-destra di governo, anche senza andare a strillare a Madrid ai comizi di Vox è all’avanguardia di una destra-destra che avanza un po’ ovunque in Europa. Berlusconi si considerava, ed era considerato, parte integrante del Partito popolare europeo, e di conseguenza anche della diarchia popolari – socialdemocratici su cui la politica europea si è sinora imperniata, ma che adesso scricchiola paurosamente. Giorgia Meloni, in vista delle elezioni europee, ambisce, apertamente e pure abbastanza realisticamente, a profittare del più che prevedibile disastro del Pse per promuovere un’intesa tra destre e popolari, in cui sarebbero ovviamente questi ultimi a giocare il ruolo della forza subalterna.
Si potrebbe continuare a lungo, ma la sostanza del ragionamento non cambierebbe. Berlusconi, che se ne è andato senza lasciare eredi politici, è il passato, un passato che ha lasciato molti segni, in prevalenza negativi, nello spirito pubblico prima ancora che nella politica, ma non tornerà. Meloni è il presente, e, quel che è peggio, è pure il futuro della destra. Per evitare che diventi pure il futuro di tutti, servirebbe non tanto un centro (alla cui liquidazione anche Berlusconi ha provveduto, precorrendo i tempi, trent’anni fa), quanto una sinistra capace di fare impietosamente i conti con se stessa per provarsi a parlare nuovamente a un Paese che ormai non si ricorda quasi di lei. Non se ne vedono in giro tracce significative. Ma questo non può essere un alibi per smettere di cercarle. Se non altro, per tigna.