Lo scacco matto
Come ha vinto le elezioni Berlusconi e mantenuto una coalizione con Bossi e Fini
Mettendo insieme il Msi, il culto della fiamma tricolore e la Lega del «tricolore nel cesso» e della lotta alla «porcilaia fascista»
Editoriali - di Michele Prospero
Per la durata della leadership e l’impatto che la sua discesa in campo ha esercitato sulle vicende repubblicane, la figura di Berlusconi possiede una straordinaria rilevanza storica. Al pari di un’età giolittiana o di un ciclo degasperiano, si può sicuramente evocare la presenza di un’epoca berlusconiana intesa come esperienza che copre un arco di tempo addirittura trentennale.
Il cambiamento delle relazioni internazionali dopo il crollo sovietico, l’accelerazione nel cammino dell’integrazione europea secondo i dettami rigoristici di Maastricht, il suicidio dei partiti tradizionali dinanzi al protagonismo delle procure, che con Tangentopoli intendevano rivoltare per intero le basi della Repubblica, il mito referendario della democrazia immediata e anti-partitocratica, crearono una situazione di emergenza.
Quando gli attori dominanti di un sistema sotto assedio lasciano che si produca un vuoto politico, a riempirlo provvedono dei soggetti imprevisti e comunque esterni all’arco costituzionale. Nella sua epopea contro “i nipotini di Stalin”, Berlusconi non vinse solo perché aiutato dal controllo di un impero mediatico. Il destino delle sue reti televisivi lo colse spaventato dinanzi alla perdita dei tradizionali referenti politici di governo, con la rovina di Craxi e la fine del Pentapartito.
L’utilizzo abile dei sondaggi e l’onda delle cassette preregistrate con il verbo del leader segnarono una svolta nella comunicazione politica. E però Berlusconi ebbe la meglio anche sul piano della strategia e della costruzione di un blocco sociale. La mera copertura televisiva delle sue gesta nulla avrebbe potuto senza una efficace conduzione della fase tattica. Il Pds sbagliò completamente l’analisi relativa all’impatto della legge maggioritaria, appena approvata sotto dettatura referendaria, ipotizzando un tranquillo quadro di carattere quadripolare, con nessuna aggregazione conservatrice o moderata in grado di impensierire davvero la “gioiosa macchina da guerra” dei Progressisti. Anche i piani dei Popolari risultarono campati in aria perché Martinazzoli confidava in un esito nullo del voto per cui inevitabile sarebbe stata dopo il conteggio delle schede la necessità di ricorrere ad aggiustamenti in Aula.
Berlusconi diede scacco matto al centro e alla sinistra con un capolavoro politico: l’invenzione della coalizione ampia ed eterogenea come nuova alchimia meccanica indispensabile per vincere. Percependo il ruolo decisivo del 75% dei seggi attribuiti con il maggioritario a turno unico, in collegi uninominali, il Cavaliere riuscì in un’impresa che nessuno immaginava realizzabile: mettere insieme il Msi (cioè il culto della fiamma tricolore) e la Lega (il partito del “tricolore nel cesso” e della lotta a quella che Bossi chiamava la “porcilaia fascista”). La realizzò in una maniera creativa, siglando un patto distinto con Bossi al Nord e con Fini al Sud.
Con due coalizioni diverse, unificate solo dal comune candidato premier, il centro-destra si aggiudicò le prime consultazioni celebrate con il formato maggioritario. Si parlò di avvento di una Seconda Repubblica nel senso almeno che nel 1994 fu infranto il paradigma antifascista in quanto al governo salirono forze estranee o addirittura ostili alla Costituzione repubblicana. Lo scivolamento a destra, ben visibile già nel successo missino ottenuto nel primo turno delle elezioni dirette dei sindaci a Roma e a Napoli nel 1993, venne in certa misura addolcito dall’invenzione del “partito di plastica” (più propriamente, si trattava di un partito personale-aziendale con quadri della Fininvest dirottati in funzioni politiche), che si avvalse dei missini in una funzione che rimaneva subalterna.
La conquista di Palazzo Chigi non resistette però oltre gli otto mesi. Più che l’invito a comparire recapitato dalle procure mentre Berlusconi era impegnato nel vertice internazionale di Napoli, a rompere la compattezza dell’esecutivo fu il varo di provvedimenti urgenti in materia pensionistica. La riforma delle pensioni lasciò esplodere la contraddizione che minava la coalizione sociale di centro-destra: piccole imprese, commercio minuto, lavoro autonomo, classe operaia in disarmo e pensionati radunati sotto la narrazione ottimistica del nuovo miracolo italiano. La grande mobilitazione sindacale spezzò la tenuta sociale del governo e facilitò il ribaltone parlamentare, con il coinvolgimento della Lega che si vedeva sfidata nel suo radicamento nei ceti popolari del settentrione.
Ogni volta che Berlusconi ha incassato la vittoria alle urne, allestendo una competitiva coalizione politica allargata, il suo potere si è sgretolato per la ricomparsa della questione sociale. La piazza ha mostrato in diverse occasioni come gli interessi del lavoro non siano mai coincidenti con quelli della micro-impresa diffusa che reclama precarietà, bassi salari, minima presenza sindacale, costituendo la radice della trentennale stagnazione economica italiana. E nel 2002 fu proprio su un classico conflitto di classe, con milioni di persone radunate al Circo Massimo in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che cominciava l’onda del malessere sociale che, unito al timore per le conseguenze del federalismo fiscale, quattro anni dopo travolse nelle urne anche il secondo governo Berlusconi.
Alla sconfitta elettorale del 2006 seguì anche la sonora bocciatura al referendum costituzionale sulla grande riforma partorita nel segno del premierato assoluto e della “devolution”. Il facile terzo trionfo riportato dal Cavaliere, che nel 2008 approfittò della vocazione maggioritaria del Pd, vide l’apoteosi del berlusconismo, con l’assorbimento coatto di Alleanza Nazionale in un partito unico, il Pdl. All’evento fondativo della nuova formazione unitaria, secondo una esilarante scenografia pseudo-americana, ogni cinque minuti risuonava in sala la musichetta “meno male che Silvio c’è”. A incrinare l’esecutivo, questa volta, non fu la mobilitazione sociale ma il vincolo esterno. Con la regia di un metapartito delle élite (non solo) europee, fu ordinato il disarcionamento dell’uomo di Arcore. La risata beffarda di Merkel e Sarkozy ad una domanda sul governo italiano segnò la condanna a morte della sua leadership.
La civetteria con l’amico Putin dopo gli anni di supporto alla politica bushiana della guerra al terrorismo, la riluttanza (soprattutto del ministro Tremonti) alla partecipazione italiana nelle operazioni per la destituzione militare di Gheddafi, con la conseguente destabilizzazione di un’area nevralgica per il Mediterraneo e per il decantato interesse nazionale, la resistenza dinanzi alle riforme lacrime e sangue “suggerite” dalla lettera estiva della Banca centrale europea, tutto questo isolò Berlusconi. Il Cavaliere veniva percepito come un corpo estraneo dalle più influenti cancellerie. Il campione della “rivoluzione liberale” (in realtà, rimase scarsa l’apertura ai diritti civili e tiepide furono le politiche economiche di liberalizzazione e privatizzazione, che preferiva addossare alla sinistra, dal pacchetto Treu alla legge Fornero) si arroccò come alfiere del protezionismo, del sovranismo economico.
L’età d’oro del berlusconismo si chiuse bruscamente con l’investitura di un podestà forestiero gradito dai vertici europei, rassicurante per gli investitori. Il licenziamento del Cavaliere ad opera della tecnocrazia non portò bene nel breve termine. Le elezioni del risentimento celebrate nel 2013 determinarono il collasso del bipolarismo (dieci milioni di voti in meno andarono al Pd e a FI, che pure si giovò di un disperato tentativo di recupero con l’uscita anticipata dalla maggioranza del governo Monti). Pesante fu soprattutto il declino della sinistra sfidata dal movimento di protesta di Grillo. In tutto il periodo del bipolarismo, nessuna coalizione è mai stata riconfermata al potere nella tornata elettorale successiva. E, malgrado una camicia di forza come il Porcellum che attribuiva una maggioranza certa a chiunque avesse riportato un voto in più dell’avversario, la protesta popolare travolse l’assetto bipolare dalle radici.
Con le politiche che premiavano il M5S e travolgevano Bersani finiva la Seconda Repubblica, che sulla linea divisoria berlusconismo-antiberlusconismo aveva assunto misure bipolari. La presenza del Cavaliere nel corso del decennio tripolare post-2013 è apparsa nel complesso marginale. Ha cercato interlocuzioni attraverso il “Patto del Nazareno”, ha inseguito una soluzione politica dopo la condanna in via definitiva che lo escludeva dalla rappresentanza, ha avuto un peso nella caduta del governo Draghi, ma da tempo la sua impronta sulla coalizione di centro-destra era sfumata. Le immagini di Berlusconi che cercava di catturare qualche attenzione, nelle piazze o nei ricevimenti istituzionali, dinanzi alla sfacciata rivendicazione di potenza di Salvini e Meloni, confermavano la sua ineluttabile perdita di leadership. L’ostilità anche fisica che egli esibiva nei confronti di una Meloni divenuta guida assoluta era piuttosto percepibile.
L’ascesa della destra radicale al potere segna per la Repubblica il compimento della parabola che dallo sdoganamento ordinato da Arcore nel 1994 culmina a settembre del 2022, con la conquista da parte della fiamma del controllo di quel popolo dell’individualismo conservatore e proprietario che il berlusconismo aveva plasmato e rappresentato. Ogni partito carismatico deve affrontare l’appuntamento con la scomparsa del leader. La via dell’istituzionalizzazione e del consolidamento organizzativo non è stata però gestita dal Cavaliere nei tempi opportuni. Dal partito personale irregolare, che non ha mai celebrato veri congressi e non dispone di gruppi dirigenti usciti da confronti programmatici, nessuno è stato designato erede del capo. Chi per mancanza di “quid”, chi perché attirava i sospetti dell’ideatore o non disponeva di capacità effettive, tutti sono crollati dinanzi al compito di “uccidere il padre”.
Non avendo pensato ad una continuità del partito-azienda, magari nel solco di un passaggio del testimone della leadership in famiglia, con il fondatore si dilegua anche la sua creatura. Non è stato il “Piccolo Cesare” (G. Bocca), il “Sultano” (G. Sartori), il “Cavaliere nero” (“L’Espresso”) o il “ragazzo Coccodé” (“Repubblica”) ad uccidere, da solo, la Repubblica democratica dei partiti. Decisivi in tal senso sono stati anche i cortocircuiti culturali delle forze politiche che con le forme liquide della personalizzazione e del leaderismo hanno decostruito ogni organizzazione radicata, con la ubriacatura post-ideologica hanno reciso ogni identità e autonomia culturale, con i cedimenti liberisti hanno smantellato ogni demarcazione sociale e di classe.
Quello che chiamano “conflitto di interessi”, e viene scambiato per una semplice questione di regole che la sinistra non avrebbe mai varato, è in realtà una più profonda contaminazione tra pubblico e privato, Stato e aziende, che segna l’attuale crisi della forma democratica. In un certo senso, Berlusconi è stato l’iniziatore di un fenomeno di privatizzazione del politico che coinvolge le più svariate esperienze in giro per il mondo. Nel tempo oscuro della “democrazia illiberale”, che al mantenimento delle procedure elettorali affianca volgari venature autoritarie, persino la presenza di un partito personale come quello di Berlusconi avrebbe potuto esercitare una qualche opera positiva di contenimento nel segno della moderazione e del limite alla volontà di potenza degli insaziabili emuli di Varsavia.