Accoglienza o barbarie

Potevano essere salvati, li abbiamo riportati nei lager: 27 migranti alla deriva respinti in Libia

Cronaca - di Luca Casarini - 26 Maggio 2023

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Potevano essere salvati, li abbiamo riportati nei lager: 27 migranti alla deriva respinti in Libia

Nel tardo pomeriggio di ieri la petroliera “P.Long Beach”, battente bandiera delle isole Marshall, proveniente dal porto di Trieste, ha toccato il porto di Marsa Brega, sul versante Est della Libia. Ma non sarà ricordata come l’ennesima nave degli affari tra compagnie europee e Haftar, che con le sue milizie controlla tutti i traffici della zona. Oltre alle stive vuote pronte per il carico, è arrivata in porto con 27 esseri umani, raccolti in mare e riconsegnati ai carcerieri dai quali provavano a fuggire. Erano partiti da Bengasi con una barchetta in vetroresina, come devono fare tutti coloro che vogliono tentare di salvarsi la vita, perché altro modo non c’è di fuggire da quell’inferno dove arrivano donne uomini e bambini che gonfiano le rotte migranti di profughi e rifugiati. Le autorità italiane coordinavano il soccorso in mare. Hanno inviato un Navtex, il dispaccio di allarme a tutte le navi in transito, da Roma. Hanno contattato il comandante della petroliera, indirizzandolo verso l’imbarcazione in pericolo. Hanno avuto da Alarm Phone prima, e dall’aereo Seabird del soccorso civile, tutte le informazioni utili a salvare queste persone. Avevano in mano tutto. Ma hanno scelto di far deportare nei lager libici dei rifugiati, potenziali richiedenti asilo, migranti, esseri umani.

Tre navi di soccorso della Civil Fleet, Humanity1, Ocean Viking e Life Support si stavano dirigendo sul punto, pronte e disponibili. Ma evidentemente al Centro di Coordinamento di Roma, è arrivato nel frattempo qualche altro ordine. È incredibile infatti che la Guardia Costiera italiana compia nello stesso giorno operazioni di soccorso per 1200 persone, tante sono quelle che ieri in casi, distinti, hanno potuto raggiungere le coste italiane grazie al loro intervento, e poi, improvvisamente, applichi un altro standard rispetto a ventisette naufraghi, violando ben due convenzioni internazionali, Amburgo e Ginevra, ma soprattutto condannando degli innocenti a ulteriori sofferenze e forse stavolta, alla morte.

Il porto di arrivo della P.Long Beach, probabilmente, era quello segnato sulla sua tabella di destinazione, fin dalla partenza da Trieste. La Convenzione di Amburgo sul soccorso in mare prevede che le navi mercantili che operino un soccorso lungo la rotta, debbano poi ultimarlo raggiungendo un “place of safety”, un posto sicuro per le persone prese a bordo, deviando il meno possibile dalla rotta originaria. Ma il punto è proprio questo: la Libia, per intero, non può essere considerata un posto sicuro. Lo dicono le Nazioni Unite, lo dice l’Unhcr e il Tribunale Penale Internazionale, oltre a quelli italiani. Lo dicono tutti. Anche Il Papa, che ha di nuovo ricordato come possano definirsi veri e propri “lager” i luoghi di detenzione ufficiali o informali utilizzati per trattenere i migranti, non smette di segnalarlo con forza. Ma allora, come è possibile che le autorità italiane, che coordinano un soccorso e chiedono a un mercantile di intervenire, poi non si adoperino, imponendolo se necessario, perché questo orrore umano e giuridico non avvenga? C’è una sola spiegazione: perché è previsto. L’orrore è pianificato. Messo in conto. Utilizzato anche come mezzo di dissuasione. Come non pensare alla gestione governativa messa in campo dopo la strage di Cutro, tutta protesa ad usare la tragedia come “monito” per chi parte?

Il porto della deportazione è sotto il controllo del generale Haftar, quello che due settimane fa era a Roma, a colloquio richiesto dal governo italiano. La collaborazione, lautamente ricompensata dall’Italia, per bloccare i migranti è stato uno dei punti principali di discussione. Nel caso specifico il governo italiano ha fortemente sostenuto il protocollo di cooperazione fra le milizie del generale “putiniano” e quella “General Administration of Coastal Security” di Tripoli, che fa capo al trafficante Trebelsi, anche lui grande “amico” del governo italiano e incidentalmente Ministro degli Interni. È proprio a Brega, nella stessa rada dove adesso è ormeggiata la petroliera utilizzata per la deportazione, che due settimane fa sono comparsi i nuovi RHIB d’altura forniti dall’Italia per le catture in mare dei profughi.

È questo il “Piano Mattei”- si rivolterà nella tomba ogni volta – per l’Africa di cui tanto si ciancia dalle parti di Palazzo Chigi. Motovedette per catturare persone in mare, e soldi per trattenerli in campi di concentramento. L’esternalizzazione della frontiera è più semplice dove c’è terra. In mare, fino alle 12 miglia, vale la stessa sovranità degli Stati, per quanto “canaglia” siano. Ma queste deportazioni sono compiute in acque internazionali, e dunque l’unico modo di sostenerne la “legalità” è affermare che si tratta di “zone di competenza libica per ciò che concerne il soccorso in mare”. Il Comando Generale delle Capitanerie di Porto, nel comunicato in cui tenta di arrampicarsi sugli specchi per respingere le accuse, usa proprio questo stratagemma burocratico, la zona Sar libica, per dire che sono loro, i libici, che, in un secondo momento sono subentrati al coordinamento italiano, che hanno ordinato alla petroliera di fare rotta su Brega. Come dire: li deportano? Li torturano? Li ammazzano? Li stuprano? Ma non è colpa nostra, noi ci atteniamo alle disposizioni. Chissà se da quelle parti hanno mai letto La banalità del male di Hannah Arendt.

26 Maggio 2023

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