Migranti scaricati in mare in Grecia, così la civiltà europea naufraga con i profughi
Editoriali - di Gianfranco Schiavone
Un video pubblicato dal New York Times il 19 maggio 2023 mostra dei migranti sull’isola di Lesbo, tra cui un bambino di sei mesi, fatti scendere da un furgone e fatti salire su una barca della guardia costiera greca da dove, in mare aperto, vengono spinti su un gommone di salvataggio e fatti andare alla deriva. Salvati da una motovedetta turca si trovano in un campo profughi a Smirne.
Vale anche per gli ufficiali greci coinvolti in questo crimine il principio che impone che vengano giudicati solo in un giusto processo, ma i fatti sono così chiari ed aberranti che impongono subito delle riflessioni. In primo luogo si è trattato di un’operazione pianificata con metodo: dal prelevamento delle persone, al trasporto sulla barca, e al loro abbandono alla deriva sul gommone. Non c’è, in quanto accaduto, solo la violazione del divieto di respingimento previsto dal diritto internazionale. Per quanto grave sia la violazione di tale divieto, il profilo di illegalità che questi fatti fanno emergere è in realtà ancora più grave: c’è infatti nella condotta attuata una violenza premeditata verso persone che vengono poste in una condizione di rischio di morte. «Non pensavamo di sopravvivere quel giorno», ha detto al NYT la signora somala Naima Hassan Aden sopravvissuta agli eventi. In queste parole non c’è nulla di enfatico o di emotivo ma c’è la semplice descrizione della realtà; le persone fatte diventare naufraghe dalla polizia greca potevano non sopravvivere. Chi ha agito nell’ambito delle sue funzioni pubbliche andrebbe dunque perseguito sul piano penale, insieme alla connessa catena di comando. Diversamente non c’è più stato di diritto in Grecia.
Tutto sembra far ritenere, dal modo in cui si sono svolte le diverse fasi dell’operazione, alle risorse impiegate (l’uso della nave della guardia costiera greca e la calcolata “perdita” di un gommone) che il gruppo di ufficiali dello stato greco non abbia agito in modo isolato, come cellula impazzita, ma che la loro azione si collochi dentro un più ampio disegno. Ciò è confermato, d’altronde, dal fatto che non siamo affatto di fronte al primo episodio del genere; appena il 9 gennaio di quest’anno la ONG Aegean Boat Report aveva denunciato un episodio analogo nel quale 25 migranti, tra cui 17 bambini, erano stati prelevati sull’isola di Lesbo, caricati su una nave in uso alla guardia costiera greca (equipaggiata anche dai cantieri navali “Vittoria” di Adria, fornitrice, tramite l’Italia, di mezzi alla Libia come documentato dalle inchieste di Altreconomia) e poi lasciati andare alla deriva su una zattera di salvataggio. Sempre secondo Aegean Boat Report, si tratta di operazioni sistematiche che proseguono da due anni a seguito delle quali oltre «25mila persone sono state respinte illegalmente nel Mar Egeo, 485 zattere di salvataggio trovate alla deriva con a bordo 8.400 persone».
Ma torniamo allo stesso New York Times, dunque non proprio al foglio di qualche piccolo gruppo di movimentisti, che quasi tre anni fa, il 15 agosto 2020, pubblicava il primo scioccante rapporto in cui descriveva le medesime modalità di condotta attuali, in quel caso dall’isola di Rodi, di trasporto e successivo abbandono in mare di almeno 1.072 persone in 31 distinte operazioni. Come può tutto ciò continuare per anni nella più completa impunità? Dov’è la Commissione Europea che, interpellata dal New York Times sul video pubblicato dal quotidiano statunitense, si limita a vacue dichiarazioni?
Alziamo lo sguardo dalla Grecia sulla quale pesano, oltre ai respingimenti in mare, altre accuse di efferate violenze condotte lungo le frontiere terrestri, e guardiamo cosa è accaduto in Polonia nel 2021 dove, come ha ricordato la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović, è stata attuata «una pratica ripetuta e sistematica di respingimento di migranti e richiedenti asilo in Bielorussia […] che potrebbe anche averli messi a rischio di tortura o di trattamenti inumani o degradanti per mano di agenti statali bielorussi, il che è incompatibile con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».
La proibizione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti è sancito, nella Convenzione, come obbligo assoluto, non derogabile mai in alcuna circostanza, neppure in stato di guerra (articolo 15). Noi non siamo neppure in guerra e già calpestiamo questo divieto assoluto per futili motivi. La strumentalizzazione dei rifugiati da parte del regime di Minsk è ignobile, ma ciò non autorizza la Polonia a commettere altri crimini. Se ipotizziamo che lo scopo del regime bielorusso possa essere stato proprio quello di cercare di destabilizzare la fragile democrazia polacca, esso, usando poche migliaia di disperati disarmati, sembra esserci riuscito.
Guardiamo cosa accade, sempre al confine con la Bielorussia, in Lituania, dove, secondo il rapporto di Amnesty International del 2021 «migliaia di persone sono state violentemente respinte in Bielorussia, dove non hanno alcuna possibilità di cercare protezione». Il rapporto mette altresì in luce condizioni inumane di detenzione, in Lituania, abusi e violenze di ogni genere verso i migranti.
Guardiamo ora alla vicina Croazia, promossa nell’area Schengen dal 1° gennaio 2023, dove il Danish Refugee Council ha registrato tra gennaio 2020 e dicembre 2022 quasi 30.000 respingimenti, di cui, nel 2022, il 13% circa ha riguardato minori, sia non accompagnati che con famiglie, in maggioranza afgani. Nel recentissimo rapporto di Human Rights Watch non a caso intitolato Trattati come animali. Respingimenti di persone in cerca di protezione dalla Croazia alla Bosnia-Erzegovina (maggio 2023) si evidenzia come «la polizia croata respinge regolarmente e spesso con violenza rifugiati, richiedenti asilo e migranti verso la Bosnia-Erzegovina senza valutare le loro richieste di asilo o le loro esigenze di protezione». All’elenco di ulteriori violenze, che non posso citare per brevità e che coinvolgono gran parte dei paesi europei, va aggiunto ciò che accade lontano dai nostri miopi occhi, in altri paesi dove tramite la prassi della esternalizzazione delle frontiere, viene attuata ogni forma di violenza immaginabile verso migranti e rifugiati. Violenze attuate da stati terzi, ma che tuttavia agiscono con i fondi e i mezzi forniti dall’Europa. Una forma di violenza delegata, dunque, di cui è maestra l’Italia con le sue operazioni in Libia e altrove.
Spero di sbagliarmi, ma ritengo che non siamo sufficientemente consapevoli del gorgo oscuro nel quale siamo sprofondati e nel quale stiamo morendo, non per invasioni o allucinazioni di sostituzioni etniche, ma per una sorta di ripudio di ciò che avevamo promesso a noi stessi di voler diventare dopo decenni di guerre totali che ci avevano distrutto, ovvero un luogo «di rispetto della libertà e di preminenza del diritto» (preambolo della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Roma, 4 novembre 1950).
Alla deriva siamo noi, non i migranti.