Folk Punk Rockers
Quel piano segreto degli Zen Circus, UFO: “Il nostro viaggio dentro il MALE: si è mangiato tutto, anche la musica italiana”
L'ultimo album della band: "Questo disco è un tentativo di scandagliare nelle dimensioni del male, di venirci in qualche modo anche a patti. Perché tanto sembra ineludibile". L'intervista
Cultura - di Antonio Lamorte
Anni a riflettere e a litigare su che male abbiamo fatto per meritarci tutto questo: questo presente di guerre, populismo, qualunquismo, influencer ed hater, opinionisti e razzisti, guru. E poi arrivano gli Zen Circus a chiedere – dopo anni a nasconderlo, glitterarlo, negarlo – se forse “adesso il male siamo noi”. Lo hanno intitolato così, IL MALE, il loro ultimo album (Carosello Records), il 13esimo in studio, apprezzato sia da pubblico che da critica. “Cosa rarissima, che ci sia contemporaneamente una risposta del genere. E invece”, dice all’Unità UFO, che all’anagrafe si chiama Massimiliano Schiavelli ed è il bassista di questa band che, contro ogni pronostico, dura ormai da quasi 30 anni.
A vederlo con Andrea Appino e Karim Qqru – ai quali negli ultimi anni si è aggiunto anche “il maestro” Pellegrini – sembrano personaggi usciti da un fumetto di Andrea Pazienza. Poi te li trovi intervistati sulla Rai che citano March Bloch e Guy Debord. “La provincia ha dato i Natali a Cesare Pavese ma anche ai sassi lanciati dai cavalcavia”: questa è una massima che resiste al passare delle stagioni e delle legislature dello stesso di UFO. Gli Zen Circus hanno esordito in un centro sociale a Pisa e girato tutta Italia in tour infiniti, sono Folk Punk Rockers, hanno declinato tutto verso cantautorato, power pop. Hanno creato una comunità, vengono invitati al Premio Strega Poesia. Una sintesi forse più immediatamente efficace: SANREMO è l’anagramma di RAMONES.
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Il disco è stato anticipato dai singoli È solo un momento, MIAO, Un milione di anni, Meglio di niente. Con L’Unità UFO ha parlato del MALE che hanno voluto raccontare, di underground e mainstream, del suo Secolo Breve mai realmente finito, del piano segreto degli Zen Circus, di quella leggenda della mitragliatrice che si porta dietro da tempo.
Come cantate nella title-track che apre il disco: il male è “da sempre il nostro talento migliore”. Giustamente. Il male però è anche esibito, rivendicato tutti i giorni: nelle serie tv, nel dibattito politico, nell’attacco al cosidetto buonismo. Credete sia davvero qualcosa di nascosto?
Secondo noi, da una parte, sì. È una merce che va, un articolo che vende, ma perché questa fascinazione si è mangiata ancora una volta il mondo? Siamo immersi dagli anni Ottanta da questa retorica di magnifiche sorti e progressive, di automiglioramento, di positività. Con i social si è moltiplicata questa voglia di dare l’immagine migliore di noi stessi tra aperitivi, tramonti, vacanze e fitness. Eppure, il grande paradosso, è che poi alla fine il male, il potere fascinatorio dell’essere stronzi, incredibilmente ha fatto il giro e si è rimangiato tutto.
E voi lo avete voluto raccontare in più declinazioni.
Questo disco è un viaggio attraverso il male. Comincia da quello interiore, poi quello di coppia, di famiglia, si allarga fino al male di vivere, al male del mondo. È un tentativo di scandagliare, di venirci in qualche modo anche a patti. Perché tanto sembra ineludibile, questo è il punto. Hai voglia di frullati proteici, di psicologia spicciola sui social, di frasi motivazionali.
Non è certo un disco consolatorio. Vi ha stupito il feedback?
È tutt’altro che in linea con quello che circola attualmente. Ce lo chiedevamo fino all’ultimo: lo capiranno, non lo capiranno? Verrà accolto con repulsione, come verrà accolto? Sembra sia piaciuto, che sia stato capito. E noi siamo contenti. Forse ce n’era bisogno, lo capiremo meglio durante il tour.
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Qual è la sua canzone preferita?
Novecento.
Le manca il Novecento?
Assolutamente no, è stato molto più pepato di quello che può emergere dalla nostalgia, da quelle operazioni alla Stranger Things. A sei anni ho visto Aldo Moro dentro un bagagliaio, avevo paura che in quel momento finisse l’Italia. Non è stato poi così bello se ci pensi. Novecento per me è un turning point dell’album, perché ironizza su questo aspetto qua. Pensavamo, dopo il crollo del Muro di Berlino, che saremmo andati avanti tutti uniti, e invece: il Novecento torna in ogni momento con la sua prepotenza, con i suoi carri armati, i suoi leader populisti, le sue pulizie etniche, le bombe e le macerie. Non mi sembra che ci siamo discostati poi molto.
Chiude l’album La fine, una lettera che è anche una presa di coscienza, dolorosa, la realizzazione di una responsabilità. “Le canzoni alla radio sono il male e tu lo sai” e “le persone influenti sono il male e tu lo sai”. Perché?
Per noi la musica deve essere anche consolatoria. Non siamo cantautori degli anni Settanta che: o è così o niente. Anzi, noi rifiutiamo quell’approccio, non vogliamo spiegarti le cose o darti le risposte. Semmai il problema è quando esiste soltanto quella di musica. Quella canzone è intrisa di amarezza. A un certo punto uno ce l’ha con tutto, anche con la radio. Ci piace ragionare per paradossi. Mentre le persone influenti, quelle sì, rappresentano parecchio il male oggi.
Perché?
Chi ha più follower è più autorevole? Non capisco, non direi. Come cambierebbero le cose se togliessimo i counter, se togliessimo i numeri dalle app musicali e ognuno avesse soltanto il suo messaggio? E invece è andata così, siamo finiti un po’ tutti, non soltanto nella musica, dentro questo meccanismo efficentista e computazionale.
A proposito di numeri: nella musica si può passare in brevissimo tempo dall’anonimato assoluto alla notorietà totale. È come se chi fa musica avesse come obiettivo soprattutto quello di diventare famoso. Alcuni ce la fanno, altri crollano. Gli Zen Circus sono anche un esempio di come si possa fare musica nella vita senza diventare necessariamente famosi, personaggi televisivi, riciclabili in qualsiasi contesto. Qualcosa è andato storto?
Questa società ha un’ossessione tremenda per i risultati. Non si può fallire mai, è un disastro totale. Non auguro a nessuno una gavetta eccessiva, non penso che sia un valore assoluto dover fare 120 date all’anno prima di avere un minimo di ritorno. È anche troppo. Il problema è che sono spariti i corpi intermedi, i club dove si creavano e crescevano queste realtà. C’è: o il karaoke al bar sotto casa o l’eventone. Non è colpa di chi comincia ora, che ha la strada anche un po’ forzata. Credo che sia giusto che si facciano dei bei tour a vent’anni, non com’è successo a noi che li facciamo a quaranta, ma la questione ha completamente scavallato. Sembra che li mettano lì in fila, gli danno un Rolex a testa e poi li mandano a casa. Non è giusto neanche questo. Spero che si stabilizzi tutto nell’avvenire.
Avete partecipato anche a Sanremo, nel 2019, con L’amore è una dittatura: crede ci sia ancora spazio in Italia per l’undergound?
Sì, penso di sì. La difficoltà sta nello slalom per trovare il pertugio tra il karaoke sotto casa e l’eventone che dicevo prima. Ma ci sono tanti ragazzi che si stanno astraendo per cercare realtà più marginali, anche se manca un supporto logistico: i posti dove suonare. Nella mia città sono rimasti pochissimi, lo vedo anche nelle grandi città. Roma tiene ancora.

Le band sono un sogno ma anche un organismo molto fragile per via di scelte e personalità: come avete fatto a durare tutti questi anni e a continuare insieme?
Penso sia anche un misto di incoscienza, caparbietà e avventatezza. A un certo punto, più che una band, è diventata un remake di Amici miei. Adesso sappiamo quello che ognuno può dare o non può dare alla band. Il mix delle personalità ha funzionato e non riusciamo a immaginarci a fare altro. Dopo anni in cui abbiamo condiviso davvero tutto, non siamo Qui Quo Qua: viviamo in città diverse e non stiamo sempre insieme. È la dimensione perfetta, possiamo andare avanti altri vent’anni così. I Pavement vivevano in Stati diversi.
Avete creato anche un vostro appuntamento, una specie di festival che si tiene ogni due anni a Villa Inferno (frazione di Cervia, come il titolo di un album, ndr). Ogni volta cresce, come cresce la comunità che vi segue. Quando se n’è accorto che stava succedendo questa cosa e come se la spiega?
In realtà piuttosto presto. Già quando facevamo busking vedevamo che la gente non andava via: suonavamo in strada, andavamo a bere li trovavamo lì. Andando avanti si percepiva che avevano piacere a passare la serata con noi, è diventato un famiglione. Dopo Andate tutti affanculo (primo album interamente in italiano della band, 2009, ndr) la cosa si è manifestata in maniera ancora più intensa. Si vedeva che c’era qualcosa, una specie di empatia. Non saprei, avranno visto in noi gli scappati di casa che erano anche loro. In definitiva l’ambizione è di diventare come i Nomadi: questo è il nostro piano segreto.
Siete Folk Punk Rockers, vi siete formati nel centro sociale Macchia Nera e avete suonato per strada, avete partecipato a Sanremo e vi invitano al Premio Strega. Qual è il vostro posto nel panorama italiano?
Credo che gli Zen abbiano la capacità naturale di stare fra il serio e il faceto, è un po’ la nostra fortuna. Ci piace far sudare e cantare la gente, farla star bene, se però vai a vedere i temi sono meno scanzonati di quanto possano sembrare. Non ci sogniamo di spiegare le cose, di fare quelli bravi, ma siamo onnivori e non ci mettiamo limiti. Se tra un’imprecazione e una citazione, riusciamo a porre domande intelligenti il nostro compito è assolto. Ancor di più se la gente prende queste nostre canzoni e le suona in spiaggia.
C’è una leggenda che la insegue da anni, cui avevate accennato nel vostro anti-romanzo (Andate tutti affanculo, Mondadori, ndr): ci racconta la storia della mitragliatrice?
Non si è fatto male nessuno. Diciamo che è stato un grosso equivoco, a suo tempo. Ma nessuno si è fatto male.
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