Il primo pacifista
Fu il carcere a fare di Papa Francesco il santo che amiamo
Appena 18enne fu fatto prigioniero in seguito alla battaglia di Collestrada che vide opporsi Assisi e Perugia. In quel periodo di reclusione maturò pensieri nuovi: si accorse del dolore e degli altri...
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore pubblichiamo alcuni stralci di “E se tornasse Francesco?” di padre Enzo Fortunato, Presidente del Pontificio Comitato Giornata Mondiale dei Bambini (Edizioni San Paolo, 156 pp. 14 euro, con prefazione di Erri De Luca), un saggio che riaccende il dibattito sul vero operato del Santo, pubblicato in occasione dell’anniversario della morte.
IN CARCERE
In carcere, dentro quattro mura fredde, in vere e proprie “topaie”. Non so quale espressione potrebbe rendere meglio l’esperienza di Francesco dopo la battaglia di Collestrada. Siamo nel 1202. Il giovane ha appena diciott’anni. È lì, in quella cella buia, che inizia a scorgere la luce di Dio. È interessante comprendere cosa accade prima di questa grande battaglia: solo così potremo cogliere appieno l’anelito profondo che porterà Francesco a battersi per la pace. In un primo momento, egli vive nel cuore di una grande rivoluzione ad Assisi: poveri contro ricchi, una città divisa, in guerra. Ma nel 1202 non è più solo la città a combattersi: Assisi si ricompatta per affrontare un nemico esterno, i perugini. Una grande battaglia si consuma, e lì, a Collestrada, Francesco viene catturato. Il padre dovrà pagare profumatamente per riavere il figlio e riportarlo ad Assisi. L’anno successivo, nel 1203, le due città firmarono un trattato di pace. Gli storici ci riferiscono – riprendendo i documenti – che prese il nome di Carta Pacis. Ho spesso pensato: quale eco può aver avuto questa Carta Pacis nel cuore del giovane Francesco? Nel frattempo, Francesco non è più lo stesso.
Come si suole dire: la “mazzata” è stata forte. Il carcere ha profondamente ferito quell’ego, quel cavaliere. Le fonti ci raccontano che, dopo questa esperienza, iniziò a soffrire di alcune malattie. Eppure non rinunciò a fare il commerciante, cercando di soddisfare le attese del padre. Ma l’episodio del carcere lo segna nel profondo. In fondo, dai tempi di Israele il cielo convoca l’uomo nel deserto. Credo sia, in un certo senso, anche la nostra esperienza. Francesco è segnato, segnato definitivamente. Ricevo spesso lettere dalle carceri. Una mi dice: «Padre, tra queste quattro mura bianche ho scoperto i miei errori». Un altro scrive: «Padre, tra queste inferriate, dove vedo uomini rigati, tra mura fredde… È vero, ho sbagliato. Ma qui il clima è indecente». I media ci raccontano quotidianamente ciò che avviene nelle carceri, ma anche ai tempi di Francesco le condizioni non erano diverse. Era deriso: gli stessi soldati lo prendevano in giro. «Cantaci una canzone!» gli dicevano. E Francesco cantava, faceva il giullare anche in carcere.
Qualcuno avrà pensato: «Ormai ha perso la testa». Piuttosto sta finalmente rimettendo la testa al suo posto. Ascoltiamo cosa ci dicono le fonti francescane: torna a casa e inizia a manifestare segni nuovi. Segni di una riflessione più profonda. Comincia a vendere qualcosa, a diventare più avveduto, ma anche a mostrare generosità. Continua a fare il mercante, sì, ma emergono i primi segni di un cuore che si apre. Francesco inizia a liberarsi da Narciso. Narciso, il nome che porta con sé il destino di chi muore guardandosi in uno specchio. È interessante notare la radice: narche, da cui narcotizzato, ovvero intorpidito dal proprio io. Come chi ha la vista annebbiata e non percepisce altro che sé stesso. Ma quando inizi a vedere oltre te stesso, quando gli occhi si aprono sull’altro, allora sbocciano i primi segni della generosità.
UN ESTRANEO SULLA STRADA
Dopo l’esperienza del carcere, lentamente, la vita di Francesco cambia. Abbiamo visto quanto quell’esperienza l’abbia segnato, e proprio ad Assisi accadde un episodio significativo. Francesco non smise di partecipare alle feste e, durante una di queste occasioni, incontrò per strada un uomo, un nobile decaduto che ora si trovava in condizioni di povertà estrema. Indossava abiti stropicciati, con le tasche vuote e i pantaloni rattoppati, aveva un aspetto trascurato e provato. Francesco rimane profondamente colpito da quell’uomo, tanto da togliersi di dosso il mantello che portava e donarglielo. I biografi scriveranno che in quel gesto si compie un duplice atto: un gesto di carità e, al contempo, un atto di restituzione della dignità a quell’uomo. Ma non è il solo segno del cambiamento che era in atto.
Un altro episodio, molto interessante, tratto dalle biografie di Francesco: un racconto così vivido che vale la pena leggerlo insieme, perché ricco di particolari significativi. Francesco si trova con i suoi amici e stanno preparando una festa, delle “corribande” per Assisi. La Leggenda dei tre compagni, una delle fonti più autentiche sulla vita del Santo, racconta così: I suoi amici, voltandosi e scorgendolo rimasto così lontano, tornarono da lui e restarono trasecolati nel vederlo quasi come un altro uomo. Allora gli chiesero: «A che cosa stai pensando? Hai forse pensato di prendere moglie?» Rispose loro con slancio: «È vero, stavo pensando di prendermi la sposa più nobile, più ricca e più bella che mai abbiate visto». È un passaggio interessante e profondamente vero. Francesco, ogni tanto, si perde nei pensieri. I suoi amici si accorgono che qualcosa non va. È un po’ come quando incontriamo qualcuno che conosciamo e ci rendiamo conto che è diverso dal solito. Forse è stato lasciato, tradito, o ha problemi a casa: qualcosa lo rende più riflessivo, meno brillante del solito.
E allora sorge spontanea la domanda: «A che stai pensando? È successo qualcosa?» Sì, a Francesco è accaduto qualcosa. Il Signore ha iniziato a parlargli, lentamente. E qui è interessante un accostamento: quello con una delle più importanti encicliche di Papa Francesco, la Fratelli tutti. È proprio qui ad Assisi, sulla tomba del Santo, che il Papa ha voluto, uscendo per la prima volta dal Vaticano, firmare questo documento. Non su un tavolo di legno, con la ritualità delle foto e due monsignori accanto, ma su un tavolo di pietra, sull’altare che Giovanni Paolo II aveva definito “cattedra di pace”. Nel testo, la prima immagine proposta a tutti gli uomini, tratta dal Vangelo, è proprio quella di un estraneo sulla strada: la parabola del Buon Samaritano. Ecco la similitudine. Quando inizia davvero la conversione? Quando ti accorgi degli altri nella tua vita.
LA PREDICA AGLI UCCELLI
Tra i tanti episodi che costellano la predicazione di Francesco e dei suoi primi compagni, ve n’è sicuramente uno tra i più celebri: la predica agli uccelli. In realtà, le prediche furono tre: una a Pian d’Arca, nelle vicinanze di Assisi; un’altra ad Alviano, presso Terni; e una, in modo particolare, a Roma – caput mundi, la sede del successore di Pietro. A Roma, però, nessuno lo ascoltava. Nemmeno il Papa, all’inizio, lo accolse con entusiasmo: lo mandò tra i porci. Poi, turbato da un sogno – secondo alcuni, sognò Francesco che sorreggeva la Basilica di San Giovanni in Laterano – lo fece richiamare. Al di là dei possibili dettagli agiografici, è certo che quell’incontro lasciò il Papa profondamente scosso. Francesco, dal canto suo, fu invece turbato dall’indifferenza dei romani. E allora? Fece qualcosa di inatteso. Francesco, che rimaneva nel cuore un giullare di Dio, iniziò a predicare agli uccelli, alle rondini: «O miei fratelli alati, dovete lodare molto il vostro Creatore, perché è stato Lui a ricoprirvi di piume, a darvi le ali per volare, a concedervi il regno dell’aria pura. È Lui che vi mantiene liberi da ogni preoccupazione».
Sta parlando davvero alle rondini? O sta parlando all’uomo? Francesco, quando predicava alle folle, lo faceva con un solo desiderio: che diventassero famiglia, che si sentissero comunità, capaci di volersi bene, di amarsi. Ecco perché ricorreva a un linguaggio insolito, spesso simbolico. E soprattutto, perché parlava nella lingua del popolo. Usava il volgare, non in senso sboccato, ma come strumento di prossimità. Il volgare era la lingua della gente, probabilmente il dialetto umbro. Parlava per farsi capire. Parlava per toccare il cuore. Di episodi come questo, ce ne sono diversi. Un giorno, una vecchietta si presentò al convento di Rivotorto: era la madre di un frate e chiedeva la carità. Francesco chiese ai suoi: «Che cosa possiamo dare a questa nostra mamma?», perché la madre di un frate era, per lui, la madre di tutti. Ma i frati gli risposero che non avevano nulla, se non il libro del Vangelo, l’unico che possedevano. Qualcuno obiettò: «È l’unico che abbiamo…» Ma Francesco replicò: «Il Signore sarà più contento se questo libro lo daremo a una donna povera, piuttosto che tenerlo noi per pregare».
Vicende come questa fanno fatica a entrare nelle biografie ufficiali. Infatti, Tommaso da Celano, che ne riportò diverse, fu guardato con sospetto. San Bonaventura da Bagnoregio, invece, cercò di omettere certe stranezze, come a dire: «Francesco è stato unico, inimitabile, l’alter Christus; noi accontentiamoci della nostra umanità». Perché sì, il cammino è faticoso. Voglio ricordare ancora un episodio, altrettanto eloquente. Un giorno, un frate porta a tavola un lebbroso. Francesco, inizialmente, si inalbera. Sì, si arrabbiò, si potrebbe dire che “si incagnò”. Era fatto così. Poi, però, si pentì. Fece richiamare il frate e il lebbroso, per rimediare all’impeto del momento. Sono stranezze? O è, piuttosto, l’umanità di un uomo che cerca, costantemente, di crescere in Dio? Ecco, in fondo, la grande domanda che ci pone il giovane assisano.