Il deputato dem dopo la Flotilla

“La mobilitazione dei giovani può salvare le democrazie dal crollo”, intervista ad Arturo Scotto

Il deputato dem dopo la missione sulla Flotilla: “Questa esperienza mi ha consentito di guardare con occhi diversi una generazione che ha avuto la capacità di ribellarsi a un genocidio in diretta senza che le istituzioni europee muovessero un dito”

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

9 Ottobre 2025 alle 14:00

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Photo credits: Alessia Mastropietro/Imagoeconomica
Photo credits: Alessia Mastropietro/Imagoeconomica

Arturo Scotto, capogruppo PD alla commissione Lavoro della Camera e membro della Direzione nazionale del Partito Democratico, una passione coltivata e praticata da sempre per la politica estera.

Su l’Unità nel tuo “Diario di bordo” hai raccontato in presa diretta i momenti più significativi e drammatici della sfida pacifista e umanitaria della Global Sumud Flotilla. Ora è tempo di bilancio. Innanzitutto, sul piano personale.
Sul piano personale questa esperienza mi ha consentito di guardare con occhi diversi una generazione che ha avuto la capacità di ribellarsi a un genocidio in diretta senza che le istituzioni europee muovessero un dito. Il loro coraggio, mettersi in mare, affrontare rischi enormi mi ha spinto a salire su quelle barche. Come parlamentari abbiamo provato nei limiti del possibile a garantire una scorta democratica a un pezzo di società civile che si è sostituita ai governi e alle loro inadempienze. Restano relazioni umane indissolubili, soprattutto con l’equipaggio di Karma, la barca dell’Arci che fa monitoraggio e salvataggio in mare per i migranti, con cui abbiamo trascorso molte settimane di preparazione e di navigazione: non era scontato tenere botta, soprattutto dopo la nottata in cui i droni hanno colpito le imbarcazioni, ancora molto lontano da Gaza. Lì ha fatto tanto la mobilitazione di una opinione pubblica che ha rappresentato un vero e proprio equipaggio da terra, gli occhi aperti sulla Flotilla sono stati milioni. E questo ci ha protetto e ci ha spinto a proseguire con determinazione e senza paura, mentre Giorgia Meloni ci attaccava senza pudore e dimostrando ancora una volta la faccia più brutale di questa nuova destra suprematista che civetta con Netanyahu. Abbiamo addirittura assistito allo scivolone di Tajani che ha sostenuto che il diritto internazionale “vale fino a un certo punto”. In bocca a un signore che fa di mestiere il Ministro degli Esteri è una frase quasi pornografica.

A sostegno della Flotilla c’è stato un movimento straordinario in quantità e qualità, come non si vedeva da tempo. Cosa racconta questa mobilitazione che continua?
Che i giovani non tollerano più la mattanza di un popolo senza patria e senza potere. E tornano all’impegno politico e civile. Sono tantissime le scuole che organizzano dibattiti, confronti, iniziative informative. Mi ha colpito come questa missione abbia influenzato l’immaginario dei bambini: sul cellulare c’erano tantissimi insegnanti che mi inviavano i lavoretti che facevano a scuola e che rappresentavano le barchette in mezzo al mare con i colori della bandiera palestinese. I giovani usano gli strumenti che hanno a disposizione, con il linguaggio di una generazione che non ha avuto molti padri e madri politici. Bisogna stare al loro fianco senza pensare di eterodirigerli o metterci il cappello sopra: qualcosa di buono in ogni caso arriverà. Qui c’è la scintilla che può salvare le democrazie liberali dal loro suicidio, perché la strada del riarmo infinito è del doppio standard rischia di produrre società meno libere e meno giuste. Con questo bisogna fare i conti e questo bisogna provare a rappresentare: un bisogno diffuso di giustizia che parte da Gaza, ma ci parla di un ordine mondiale diverso, non fondato sull’idea che il diritto internazionale viene soppiantato dalla legge della prepotenza.

I palestinesi conoscono Israele per i soldati, la violenza, ovvero per i coloni pogromisti della Cisgiordania. In quelle ore drammatiche vissute da prigionieri, che immagine ti sei fatto d’Israele?
Quello che hanno fatto a noi non è nemmeno un decimo di quello che Israele fa ogni giorno ai palestinesi. In termini innanzitutto di privazione della loro libertà e del loro diritto a lavorare, a costruire una economia autosufficiente, a rafforzare le proprie istituzioni. Come spiega d’altra parte Francesca Albanese nel suo rapporto per le Nazioni Unite, l’economia del genocidio vede tutto l’Occidente purtroppo in prima fila nella cancellazione di una identità nazionale e del diritto all’autodeterminazione. Quello che posso dire è che tuttavia, anche nel modo in cui il Governo di Israele ha reagito alla iniziativa della Flotilla, emerge una fragilità di fondo, che forse andrebbe evidenziata meglio. Una potenza militare che ha paura di quaranta barchette che portano aiuti umanitari dimostra che il re è più nudo di quanto pensiamo nel rapporto con una opinione pubblica mondiale che non tollera più la deriva autoritaria di Netanyahu, la torsione “cilena” della polizia di Ben-Gvir, la cancellazione della prospettiva politica del popolo palestinese.

Elly Schlein ha schierato da subito il PD contro la mattanza di Gaza, per il riconoscimento dello Stato palestinese, a sostegno della Flotilla. Anche stavolta la stampa mainstream e un certo “fuoco amico” l’ha accusata di massimalismo e di veteropacifismo.
Elly Schlein ci è stata vicino in ogni passaggio della missione, avevamo un rapporto costante con lei e ci ha sempre lasciato la massima libertà di scelta. Ha dimostrato ancora una volta una grande caratura umana e politica, oltre che la capacità di capire che quando un evento muove le coscienze di milioni di persone, il Partito democratico deve stare dalla loro parte. Dalla parte di chi difende l’umanità e la speranza. La verità è che si vorrebbe un PD meno autonomo, schiacciato sull’idea che il mondo va bene così come è. Ma una sinistra che non prova a cambiare il mondo non ha ragione di esistere in natura, serve solo a conservare qualche rendita di posizione. Per questo io sto con Elly nella ricostruzione lunga e faticosa di un punto di vista nuovo.

Credi ancora possibile una soluzione a due Stati?
Chi sostiene questa soluzione oggi appare un marziano. Eppure, continuo a pensare che alternative non ce ne siano. Il lungo regime di apartheid a cui i palestinesi sono sottoposti e la costante sottrazione di territorio attraverso la espansione coloniale ci dicono che oggi non c’è nemmeno lo spazio fisico per la costruzione di uno Stato di Palestina. Occorre innanzitutto mettere fine all’occupazione, ristabilire i confini del ‘67 e riconoscere il diritto di quel popolo ad autodeterminarsi. Servirà una forza militare multinazionale a garantire lo smantellamento degli insediamenti e la restituzione dei territori a chi ne ha diritto secondo le risoluzioni dell’Onu, altrimenti sono tutte chiacchiere. Lo può fare solo una comunità internazionale che si assume le sue responsabilità e che, come ha detto Emmanuel Macron all’Assemblea generale dell’Onu, trasmette ai palestinesi l’idea che non sono e non devono sentirsi più un “popolo superfluo”. Oggi si apre qualche spiraglio di negoziato per iniziativa degli USA. Tardivo purtroppo, dopo 65000 morti e la distruzione di tutte le infrastrutture materiali di quel paese. Non dobbiamo illuderci: sarà un processo non semplice, ma tutto quello che va nella direzione del cessate il fuoco, della fine dei massacri, dell’apertura dei corridoi umanitari, del rilascio degli ostaggi è un passo in avanti. Eppure, questo non può significare che lo sbocco naturale sia poco più che l’ennesimo protettorato. Sarebbe inaccettabile e alimenterebbe altre spirali di odio per decenni. Resta un tema su cui dovremmo interrogarci tutti noi, a trent’anni da Oslo. Quel tentativo fu portato avanti da leadership laiche: al tavolo c’erano Clinton, Rabin e Arafat. Oggi invece a trattare sono Trump, Netanyahu e Hamas. Tutti loro sostengono di agire in nome di Dio. Ma la geopolitica fatta con la Bibbia, la Torah e il Corano non va lontano. Senza un nuovo multilateralismo fondato sulla prevalenza del diritto saranno solo i messianici a dettare l’agenda. E difficilmente sarà la pace la loro bussola.

Potrebbe essere Marwan Barghouti l’uomo della pace?
Se Barghouti venisse liberato sarebbe una decisione clamorosa e potenzialmente introdurrebbe nello scenario palestinese una leadership capace di parlare a tutte le fazioni. Parliamo della personalità più autorevole di quel campo, forse l’unico in grado di costruire le condizioni per un accordo duraturo.

9 Ottobre 2025

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