Il senatore Pd
Antonio Misiani: “No a questa manovra di austerità e galleggiamento”
«Si continuano a lesinare i fondi per sanità, scuola e casa, l’unica novità è l’aumento record delle spese militari. Le regionali? Costruire la coalizione progressista in tutte le regioni è stato un risultato importante. I risultati di Marche e Calabria ci ricordano che la strada è ancora lunga»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Antonio Misiani, senatore, responsabile Economia e Finanze, Imprese e Infrastrutture nella Segreteria nazionale del Partito Democratico.
Sciopero per Gaza. Piazze piene. Due milioni di persone in più di cento città italiane. E il giorno dopo, un’altra enorme manifestazione a Roma. Eppure, c’è chi dice e scrive che il sindacato, la sinistra, il PD dovrebbero occuparsi di altro.
Le piazze dei giorni scorsi sono un fatto politico molto importante. Due milioni di persone, in oltre cento città, un risveglio delle coscienze impressionante, che interpella tutti. Io non mi considero un movimentista, ma sarebbe francamente incomprensibile se i progressisti e il sindacato non si occupassero di questo. La pace e i diritti umani fanno parte del DNA della sinistra, tanto quanto difendere lavoro e pensioni o battersi per la sanità e la scuola pubblica. Alcuni di coloro che dicono che dovremmo “occuparci d’altro” non hanno capito la portata di quello che sta accadendo. Altri lo hanno capito benissimo, lo temono e cercano di criminalizzarlo strumentalizzando le azioni – del tutto inaccettabili – di alcune piccole frange di estremisti.
Nelle manifestazioni per la Palestina e a sostegno della Global Sumud Flotilla, grandissima è la partecipazione dei giovani. Un segno di speranza?
Credo di sì. Vedere tante ragazze e tanti ragazzi in piazza è un segnale importante: dimostra che apatia e disillusione non sono un destino inevitabile per la nostra società. C’è una generazione che rifiuta la retorica della rassegnazione e sceglie di impegnarsi per la pace, la giustizia climatica e sociale. Non è detto che questa mobilitazione trovi uno sbocco politico immediato — la lezione di Nenni sulle piazze piene e le urne vuote resta attuale — ma da quelle manifestazioni arriva una spinta forte di cittadinanza attiva, una domanda di radicalità e di coerenza nei confronti della politica. Pensare di poter “mettere il cappello” su quei giovani sarebbe un’illusione. Ignorarli, invece, sarebbe un errore. La strada giusta è quella dell’ascolto, dell’apertura e del confronto.
Movimentista, pacifista, troppo sinistrorsa… Fuoco su Elly Schlein. C’è anche del “fuoco amico”?
Quando una leader politica prova a cambiare davvero le cose, una reazione contraria è inevitabile. Quello che conta, però, è che il PD con Elly Schlein ha ritrovato identità e riconoscibilità. Parla di lavoro, sanità, diritti, pace. Si impegna per unire le opposizioni e costruire una alternativa alla destra. Questo non è movimentismo: è politica, quella vera, popolare, che i cittadini sentono vicina. Il “fuoco amico” esiste, come in tutti i processi di cambiamento, ma la base del partito, i circoli, il mondo del lavoro in larga parte condividono questa linea e riconoscono il lavoro di Elly Schlein. E questo, alla lunga, farà la differenza.
Dopo le Marche, la Calabria. Quali ricadute nazionali del voto in questa prima tranche delle elezioni regionali?
Costruire la coalizione progressista in tutte le regioni è stato un risultato importante e tutt’altro che scontato. Se questo è stato possibile, il merito va innanzitutto a Elly Schlein, che ci ha creduto più di molti, dentro e fuori il PD. I risultati nelle Marche e in Calabria, però, ci ricordano che la strada è ancora lunga. Il consenso di Giorgia Meloni e della destra non va sottovalutato: attorno alla premier si sta saldando un blocco sociale ampio, che rappresenta una parte significativa del Paese. La somma aritmetica delle forze alternative alla destra non basta per vincere. Serve un progetto politico che unisca e convinca, capace di proporre una visione del futuro dell’Italia fondata su lavoro, diritti sociali e civili, innovazione e sostenibilità. Il nostro compito è costruire un’alternativa di governo credibile e riconoscibile, che rimetta al centro i bisogni delle persone. Quando lo abbiamo fatto — penso alle battaglie per il salario minimo e per la sanità pubblica — abbiamo dimostrato di poter mettere in difficoltà la destra. Dobbiamo ripartire da lì: da iniziative politiche comuni con le altre forze della coalizione, dalla definizione di un programma chiaro e condiviso, dal radicamento nei territori e dalla crescita di una nuova classe dirigente. Solo così l’alleanza dei progressisti potrà diventare una vera forza di cambiamento per il Paese.
La leadership di Schlein è sotto tiro?
Elly Schlein sta guidando un processo difficile ma necessario: ha preso in mano un partito sconfitto e in grande difficoltà e lo sta riportando ad essere il baricentro di una proposta progressista, europea, moderna. Sta lavorando per aprire porte e finestre di un partito complicato e spesso autoreferenziale, sta provando a rimettere in moto nei territori l’ascolto e la partecipazione. Certo, il cammino è lungo, le cose da fare tante e alcuni limiti sono innegabili, ma il consenso personale di Schlein, dentro e fuori il PD, è molto più alto di quanto tanti commentatori pensano, perché Elly è percepita come autentica. E in un tempo di leader costruiti a tavolino, questo conta moltissimo.
Tornando alle elezioni regionali. Un dato unificante è la marea di astensioni, nelle Marche e ancor più in Calabria.
Sì, l’astensione è il vero dato politico di fondo. Quando più di metà degli elettori scelgono di non votare, vuol dire che la crisi della democrazia ha superato il livello di guardia. Questo segnale deve interrogare tutti, vincitori e sconfitti. La disaffezione nasce da un profondo disincanto verso la capacità della politica di incidere e cambiare in meglio la vita delle persone. Per riportare gli elettori alle urne, la via è una sola: ricostruire un rapporto di fiducia che negli anni si è logorato, cambiare il modo di fare politica, accorciare la distanza tra le istituzioni e i cittadini, tornare a essere presenti, credibili, radicati nei territori. È un lavoro faticoso, di lunga lena. È la sfida più difficile ma anche la più decisiva.
Il Governo esalta i successi in economia e sull’occupazione. Ora si apre lo scontro sulla manovra.
I numeri reali raccontano un’altra storia. L’Italia cresce meno della media europea e senza il PNRR sarebbe in recessione, la produttività sta calando e il Paese si va deindustrializzando. I salari italiani sono i più bassi d’Europa e tantissimi giovani sono costretti a emigrare. Di fronte a questa situazione, il governo risponde con una manovra di austerità e galleggiamento, che sembra scritta dalla Ragioneria dello Stato. Quella che si prospetta è una legge di bilancio senz’anima: nessuna politica industriale, nessuna strategia per il lavoro, nessun intervento serio sul potere d’acquisto delle famiglie. Si continuano a lesinare i fondi per sanità, scuola e casa, mentre si portano a livelli record le spese militari. Noi contrasteremo questa politica in Parlamento e nel Paese: l’Italia non ha bisogno di propaganda, ma di una manovra che rilanci lo sviluppo e dia risposte concrete alle imprese e alle famiglie, a partire da quelle che ogni giorno fanno fatica ad arrivare a fine mese.
Dalle pensioni all’ippica, dal contrasto alla povertà, alla valorizzazione della risorsa mare, dalla riforma dell’ordinamento dei commercialisti alla sperimentazione di sistemi e modelli di Intelligenza artificiale da applicare alla giustizia: sono 40 i disegni di legge che il governo metterà in campo come “collegati” alla prossima manovra economica. Di tutto, di più?
Più che di tutto e di più, direi un po’ di tutto e di niente. Quaranta disegni di legge collegati alla manovra danno l’idea di un governo che annuncia molto ma non ha una direzione di marcia. Dentro quei disegni di legge c’è di tutto, tranne una strategia per rimettere in moto l’Italia. Piuttosto preoccupante, per un Paese in cui la crescita si è fermata e le disuguaglianze aumentano inesorabilmente. Dovremmo puntare sul potere d’acquisto delle famiglie, su un sistema fiscale più equo e più favorevole al lavoro e all’impresa, sulle politiche industriali e sul rafforzamento dei servizi pubblici essenziali. Invece si continua a inseguire temi sparsi, spesso per finalità propagandistiche, senza una visione complessiva di politica economica e sociale.
Manovra “armata”: in tre anni 23 miliardi in più di spese militari
È l’unica vera novità di questa manovra: un aumento senza precedenti delle spese militari, che nel triennio 2026-2028 assorbiranno un’enorme quantità di risorse. È il primo effetto concreto dell’accordo capestro sul riarmo siglato dal governo Meloni in sede NATO, in ossequio al diktat di Donald Trump. Un riarmo su base nazionale, senza alcun passo vero verso una difesa europea. Questa spesa aggiuntiva non verrà computata nei parametri del Patto di stabilità e crescita, ma peserà comunque su deficit e debito pubblico, sottraendo fondi a sanità, istruzione e investimenti. In un Paese che ha smesso di crescere e in cui la povertà è al massimo storico, è una scelta che non possiamo condividere.