Il ricordo dello scultore
Chi era Arnaldo Pomodoro, addio all’artista delle iconiche sfere in bronzo
Le sue iconiche sfere di bronzo, onnipresenti nei tg collegati con la Farnesina. La punta di trapano all’ingresso sud ovest di Roma. Un artista geometrico e astratto insieme che ha fatto epoca
Cultura - di Fulvio Abbate

Arnaldo Pomodoro: le sue sculture. O forse sarebbe meglio dire la sua presenza totemica, destinata a punteggiare in primo luogo i telegiornali, meglio, il racconto della politica estera: non c’è collegamento, l’inviato lì in primo piano, l’edificio della Farnesina, sede, appunto, del Ministero degli Affari esteri, che non mostri la sua sfera, in modo segnaletico. Anche in assenza di notizie esatte sull’autore chiunque, davanti a quel suo “oggetto“, “forma”, “presenza” ha subito sentore del “discorso” poetico formale dell’artista scomparso quasi centenario nei giorni scorsi.
Si direbbe quasi che Pomodoro abbia come intento principale mostrare la sostanza geometrica, l’ideale morfologia segreta di una materia ideale, la sua. Pomodoro scultore, certo, ma anche orafo, sorta di Benvenuto Cellini dell’astrattismo italiano, che nel dopoguerra si è esercitato su sé stesso, muovendo dalla lezione, metti, di un Kandinskij o di un Klee. Nel nostro caso sembra quasi che le intuizioni di questi ultimi appaiano materia solida, forma solidificata, nervatura, anima della sostanza stessa segreta della forma. Agli occhi di alcuni quest’ultimo titolo, il suo essere orafo, viene ritenuto un limite formale, quasi una sostanza leziosa, accademica, un modulo ripetitivo, che tuttavia proprio nella sua riproducibilità estetico-formale definisce la cifra stilistica di Pomodoro, appunto. Fratello maggiore di Giò, scultore ben più geometrico, forse anche segnato da una cifra cimiteriale, paradossalmente fra i due intercorre una distanza, la stessa distanza che esiste tra decorazione e geometria in senso proprio e assoluto.
Le sue sfere, ma anche ogni altra struttura, che porta altrettanto la sua firma, perfino in forma cilindrica, quindi non meno totemica, fanno sempre e comunque riferimento a un viaggio nel cuore della materia, quasi che Pomodoro voglia mostrarsi come uno “speleologo” della ricerca artistica; quest’ultime le rammentiamo a Bologna, in piazza Verdi, davanti ai locali di alcune facoltà universitarie,: gli studenti in rivolta del marzo 1977 sentirono il bisogno di “vandalizzarle” sostituendo alla loro “pelle” di bronzo tendente all’oro i colori, la pittura della giocosità mao-dadaista dei cosiddetti indiani metropolitani. Oggi quei due totem non sono più presenti, non è escluso che il Comune abbia pensato di farne arredi urbani destinati ad altri luoghi, possibilmente lontani da ogni possibile manomissione. Compagno di strada di alcuni significativi letterati d’ avanguardia, prossimi al Gruppo 63, nonché tentati dall’antagonismo politico, si pensi in primo luogo a Francesco Leonetti, poeta ma anche voce del corvo di Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini, Arnaldo Pomodoro è stato altrettanto un “compagno di strada“ di alcune significative avventure di militanza ed elaborazione intellettuale, si pensi all’esperienza della rivista Alfabeta tra la fine degli anni 70 e gli 80 maturi.
Nei primissimi anni Sessanta è tra coloro che hanno trovato in Lucio Fontana e altri artisti prossimi allo Spazialismo, un punto di coagulo nel gruppo informale di “Continuità”, grazie al quale raffina un proprio stile, esprimendo la sua arte nell’equilibrio tra le geometrie esterne e i meccanismi interni delle sue opere monumentali, più adatte alle sue capacità espressive di quelle di dimensioni ridotte, che non gli permettono di indagare all’interno del soggetto rappresentato. Probabilmente, azzardiamo una lettura possibile, ciò che in Fontana resta inconoscibile, oltre il “taglio” e il “foro” applicato sulla tela o magari nello stesso bronzo, nient’altro che “concetto spaziale”, in Pomodoro si fa azzardo formale, viaggio al termine della materia fino a mostrarne le possibili declinazioni plastiche.
Era nato a Morciano di Romagna nel 1926, eppure la sua avventura va associata a Milano, dove da molti anni ha sede anche la Fondazione che porta il suo nome. Tra i suoi numerosi progetti va ricordato anche il contributo alla ricerca teatrale con l’esperienza alle Orestiadi di Gibellina: lì le sue macchine sceniche che, sia pure riproducendo i suoi stilemi, mostravano anche qualcosa di metaforicamente prossimo alle macchine di tortura o forse restituivano una sorta di costruzione festosa, tra suggestioni piramidali e scrigni.
Chiunque, a Roma, si trovi a fare ritorno in città lasciandosi alle spalle la via Pontina e il suo “Agro redento”, punteggiata dai pini mediterranei, un istante prima di scorgere il Palazzo dello sport dell’Eur, memoria delle Olimpiadi del 1960, accanto al grattacielo “a lastra” dell’Eni, si imbatte in una sua opera conica, la stessa che talvolta ai più sprovveduti dà la sensazione di una punta di un trapano pronta lì a bucare idealmente il cielo dell’Urbe; la lezione di Paul Klee, insieme alle suggestioni del Costruttivismo, sono lì a contrastare, grazie a Pomodoro, la retorica della città monumentale d’epoca fascista, rappresentata poco oltre dall’obelisco di Arturo Dazzi, lo scultore di Carrara, che Mussolini visitava ogniqualvolta si recava alla Quadriennale. Francesco Rutelli ne ha così accompagnato la scomparsa: “Ricordo il Maestro Arnaldo Pomodoro per il magnifico lascito culturale, la sua amicizia, l’impegno civile e il progetto ‘Novecento’. Da ministro della Cultura proposi questa sua opera al posto dell’Obelisco di Axum: ora segna l’ingresso sud-ovest di Roma”.