30 anni dal film cult
Intervista a Daniele Lucchetti: “Raccontare la scuola è raccontare il mondo intero”
«È la potenza di tanti film rimasti nella storia». Nel 1995 La scuola fu un grande successo di pubblico e critica «Mentre lo giravo mi sembrava troppo facile, ha calamitato su di sé più del previsto. I miei film? Hanno tutti a che fare con l’umano difettoso. Bellocchio un faro: fa sempre cose belle anche quando sono meno belle»
Spettacoli - di Chiara Nicoletti

La 61esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro ha inaugurato sabato 14 giugno con la proiezione, in piazza, davanti ad oltre 800 persone, de La scuola di Daniele Luchetti, a ben 30 anni dalla sua uscita sala. Il film, tratto dallo spettacolo teatrale di Domenico Starnone, ricevette grandi consensi di pubblico e critica nel 1995 e si narra di innumerevoli proposte di sequel e remake. A pochi giorni dalla proiezione di La scuola, abbiamo raggiunto Daniele Luchetti per un viaggio tra i suoi ricordi di quel periodo e una riflessione più profonda sul suo cinema, i temi che lo animano e i registi a cui guarda con ammirazione.
Cosa ricorda del Luchetti che realizzava La Scuola? Che atmosfera e che fermento c’erano?
Se devo pensare a me stesso mi viene in mente uno che la notte, mentre gira il film, non riesce a dormire e pensa “ho 35 anni e sto girando questa cazzata pazzesca”. Avevamo trafficato tantissimo sulla sceneggiatura, lavorando per 3 anni su questo copione, avevamo portato in scena uno spettacolo che era molto simile al film e che era stato un grandissimo successo. Mentre giravo il film e mi trovavo in quell’atmosfera gioiosa che hanno le commedie in cui tutto sembra scorrere e i meccanismi scattano, mi sembrava troppo poco e invece non sapevo che era proprio quella sensazione di facilità, dopo una lunga progettazione, che stava facendo venire il film bene e quindi mi preoccupavo perché mi sembrava che venisse troppo facile, ecco.
Cosa raccontava La scuola dell’Italia di quegli anni?
È stato un film che è riuscito a calamitare su di sé molto più di quello che progettava. Il fatto di aver aperto le porte al reale attraverso una struttura narrativa robusta, uno sguardo tagliente poi alla fine non ha raccontato solo quello che raccontava ma tanto altro e questo secondo me è stato il successo del film.
Più volte le hanno chiesto un sequel. Se cambiasse idea, cosa potrebbe raccontare?
In realtà, non sarei contrario. Il problema è che quando mi è stato chiesto di fare un sequel, non avevo un’ispirazione altrettanto felice di quando il primo film è scattato. La scuola non è stata solamente un’ideuzza cioè “facciamo un film sulla scuola”, è stato un duro lavoro, durato 3 anni con tre grandi scrittori, Rulli, Petraglia e Starnone, per cui trovare quel film è stato faticosissimo. Sarebbe bello trovare un produttore come Cecchi Gori che dice “Ok, adesso vi paghiamo per tre anni finché non trovate una buona idea”. Così è andata allora.
Si potrebbe esplorare in un sequel l’idea di scuola-caserma stile Valditara oppure quello che si dice della violenza che adesso dilaga?
Il cinema, anche quello civile o politico, parte sempre da un’osservazione degli umani per cui è difficile fare un ragionamento politico. Tutto quello che immagino il vostro giornale dica sulla scuola, mi trova totalmente d’accordo, ma i film non si fanno così, partono da una visione narrativa. Magari la visione narrativa cambia se tu sei un uomo politico o sei una persona con un impegno, però è chiaro che il cinema che parla del reale è sempre uno strumento forte se il film è buono e mi è molto difficile poter direzionare, anche ipoteticamente, un film sulla scuola senza un lavoro. La cosa che La scuola ha azzeccato e che anche un sequel azzeccherebbe è che una volta che hai centrato un racconto scolastico ben fatto, tu stai catturando tutto quello che c’è anche fuori la scuola, non solo quello che c’è dentro. Questa è la potenza di tanti film che sono rimasti nella storia. Mi viene in mente L’attimo fuggente, per dirne uno. Ogni volta che si tocca la scuola, si tocca un mondo intero.
Ci sono dei punti di connessione tra i suoi film, seppur diversi e che cosa la muove?
In realtà in passato ho pensato che i miei film non legassero tra di loro, però, ultimamente, che comincio ad avere una certa età, mi dedicano spesso delle rassegne e quando rivedo i miei film, mi accorgo che hanno tantissimi punti in comune. Spesso raccontano degli idealisti che falliscono, hanno personaggi o argomenti invisibili che incombono sulle persone. Hanno spesso uno sguardo sociale. Alla fine hanno sempre qualcosa a che vedere con l’umano difettoso.
Di recente un giovane regista ha detto che gli artisti hanno il dovere, la responsabilità di fare politica, di scuotere le coscienze. Lei spesso lo ha fatto. Ci vede, appunto un dovere o questo è semplicemente il suo modo di fare cinema?
È il mio modo ma io non penso sia un dovere nel senso che se c’è un artista che lo ritiene tale, bene, ma se c’è un artista che non lo ritiene un dovere, sarà un altro tipo di autore. Non credo che gli artisti “debbano”, gli artisti “possono” e possibilmente devono essere anche in condizioni di cambiare idea nel corso della propria vita. Semmai, per quanto mi riguarda, più che essere uno che fa narrazione politica, spesso ho fatto film in cui ci sono personaggi che fanno politica, questa è la differenza. E, siccome l’esperienza dell’impegno politico l’ho avuta per tanti anni e so cosa pensano, come si comportano, come dice Cechov, io sono un narratore che semmai racconta personaggi che sono appassionati di politica, ma non faccio una narrazione politica.
Quali temi di attualità sente che dovrebbero essere più toccati dentro un film o dentro un suo film?
I punti caldi di questi anni sono il lavoro, la sessualità, le relazioni amorose perché sono le cose che hanno subito, forse, dei cambiamenti più potenti.
La Mostra del Cinema di Pesaro ha come mission quella di scoprire nuove voci, nuovi autori. Cosa però, secondo lei, definisce il film d’autore oggi?
Temo che mai come in questo periodo questa domanda si riveli la domanda sbagliata. Io non vado più così spesso al cinema come una volta e quindi, forse, il mio è un punto di vista molto parziale però ho l’impressione che siamo in un momento in cui il cinema d’autore è diventato, purtroppo, un genere. Racconta spesso tematiche difficili in maniera intensa e a volte, non sempre, si ha la sensazione che sia un genere ripetitivo. Questo ovviamente ha delle enormi eccezioni e a volte abbiamo avuto un grande cinema d’autore che è stato estremamente popolare. Mi vengono in mente i film di Ruben Östlund o ad esempio Parasite, film d’autore, popolari e anche molto innovativi. Se per comodità, dunque, si vuole dire che il cinema d’autore è quello che vanno a vedere in pochi, io direi sì ma attenzione perché c’è un ottimo cinema d’autore originale, innovativo che vanno a vedere in tanti. Per questo è meno d’autore? Se siamo in grado di categorizzare il cinema d’autore vuol dire che è diventato un cliché.
Rispetto al suo lavoro, dove si sta indirizzando?
Diciamo che un tempo il nostro interlocutore principale era il pubblico e noi registi pensavamo solo in quei termini. Oggi, il nostro interlocutore principale è il finanziatore ed a volte sembra che il finanziatore abbia un po’ meno a cuore il rapporto con la sala perché ci sono le piattaforme, i passaggi televisivi, le coproduzioni, ci sono altre logiche e quindi ci sembra di galleggiare un po’ più nel vuoto rispetto al passato. Prima si tentava di conquistare il favore del pubblico in un modo o nell’altro, oggi si tenta di conquistare il favore di chi mette i soldi. Questo a me però non piace nel senso che preferirei ricominciare. Dopo essere un po’ cascato dentro questa sorta di ragionamento un po’ perverso, oggi per me sarebbe molto bello e importante cercare di lavorare rispondendo ad un bisogno collettivo, quello di fare più cinema popolare, senza tradire quello che so fare, quindi parlare dell’oggi, di questo paese ed anche delle dinamiche sociali, però non si può pensare di fare un cinema senza pubblico, è una cosa che non si sopporta. Quando noi registi non stabiliamo una connessione è un fallimento, non è un punto di orgoglio. Quando un film non mi va bene, io sento di aver fallito, non penso di aver fatto una cosa troppo bella per il popolo.
Ci sono anime affini a lei che intravede magari tra le nuove voci?
In realtà c’è un altro vecchietto che mi piace tanto ed è Marco Bellocchio. Per me è un faro. Fa cose talmente diverse da coglierti sempre di sorpresa. Fa sempre cose belle anche quando sono meno belle. Un altro regista che io adoro è Jacques Audiard, qualsiasi cosa fa. I due hanno in comune che per loro il cinema è il centro di tutto. Si domandano ogni volta come si possa fare cinema un pochino meglio della volta precedente, mi sembra che quella sia la chiave.
I 30 anni de La scuola sono stati occasione per guardarsi indietro? Rimorsi, soddisfazioni?
Si, mi sono guardato indietro. Per cominciare, avrei fatto il remake de La Scuola quando me l’hanno chiesto subito dopo. Mi avrebbero dato abbastanza per comprarmi un appartamento e oggi lo vorrei avere. Diciamo che non ho voluto prostituirmi, invece oggi dico: “perché no?”. E poi ci sono dei film che ho fatto credendoci moltissimo e sono venuti così così e oggi non li rifarei, però come facevo a saperlo? Mi piacerebbe una carriera fatta anche con delle cancellazioni come i quadri di Isgrò con dei tratti neri che uno pensa “chissà cosa c’è sotto”, però non si può fare. E mi sembra bello che ancora non ho imparato a fare le cose, diciamo, dunque c’è ancora margine per imparare.