Il libro inchiesta

Giancarlo Siani, l’eredità del giornalista ammazzato dalla Camorra 40 anni fa

Della sua morte non si smetterà di parlare, ma un po’ del suo coraggio ha contagiato chi resta? Nel suo caso la risposta è no. Negli stessi luoghi dove Giancarlo ha indagato al costo della vita, i mandanti del suo omicidio continuano a regnare

Cultura - di Pietro Perone

14 Giugno 2025 alle 19:25

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Giancarlo Siani, l’eredità del giornalista ammazzato dalla Camorra 40 anni fa

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo qui di seguito ampi stralci del sedicesimo capitolo di “Giancarlo Siani. Terra nemica”, nuovo libro inchiesta edito da San Paolo che Pietro Perone, caporedattore centrale del Mattino, ha dedicato alla vicenda del giornalista scomodo, assassinato dalla camorra il 23 settembre del 1985 all’età di 26 anni. “Terra nemica” sarà ufficialmente presentato a Trame, festival dei libri sulle mafie che si tiene ogni anno a Lamezia Terme, nella serata del 20 giugno alle 22 e 30, presso la piazzetta San Domenico. Intervengono l’autore Pietro Pierone, e poi Vittorio Di Trapani (FNSI), Michele Albanese, Nello Trocchia, Graziella Di Mambro e Mimmo Rubio.

Della morte di Giancarlo, come accade per Falcone, Borsellino, Impastato, don Puglisi o don Diana, non si smetterà mai di parlare. E non solo per difendere la memoria, come è giusto che sia. Pesa sui delitti di mafia un ammasso di intrighi, reticenze e omertà che a distanza di decenni perdurano e allontanano la verità piena. Un po’ del coraggio delle vittime ha “contagiato” i vivi? Nel caso di Siani la risposta è no, almeno nei luoghi in cui lui ha combattuto. Il Comune di Torre Annunziata, a partire dal 1985, è stato sciolto tre volte per infiltrazioni mafiose. La sua Mehari, misteriosamente finita a Filicudi e restituita alla famiglia dopo sedici anni grazie a Michele Caiazzo, un ex consigliere regionale, è stata fatta sfilare in lungo e in largo per la città, come quando Siani andava a caccia di brandelli di verità, sognando un luogo libero dalla camorra e amministrato da politici degni. Durante le elezioni comunali del 2017 i voti si vendevano invece per dieci euro, come ha denunciato don Felice Paduano, uno dei preti-coraggio rimasti in trincea. Nel 2024 si sono riaperte le urne e ora la politica prova lentamente a ripartire. Non sarà facile. Il boss Valentino Gionta, ormai settantenne, è stato condannato a più ergastoli, ma non ha mai abdicato al ruolo di capomafia. Dai penitenziari di massima sicurezza riesce ugualmente a gestire gli affari: racket, droga, traffici di ogni tipo e appalti, come avveniva negli anni Ottanta, mentre figli e nipoti incutono paura e per anni hanno continuato a condizionare le scelte degli amministratori che si sono succeduti alla guida del Comune. […]

Per decenni Palazzo Fienga, il regno del clan, dopo l’omicidio Siani è stato rifugio di latitanti e deposito di armi. L’unico “successo” finora conseguito dallo Stato è stato quello di sfrattare la famiglia Gionta e altri “inquilini” affiliati alla cosca. Terrore e lutti, al pari di quando Giancarlo batteva con passione i tasti della sua Lexikon 80 dell’Olivetti, macchina da scrivere ingombrante e rumorosa, su cui il cambio del nastro d’inchiostro poteva rivelarsi un incubo, specie quando si era in ritardo con la consegna di un articolo. Il progresso tecnologico non è servito, però, a cancellare le “perversioni” di una professione in cui c’è gente che si mostra forte con i deboli, accondiscendente con i potenti. Non sono cambiate neanche le modalità di accesso all’Ordine dei giornalisti, tra “pubblicisti” ai quali basta avere scritto qualche articolo su testate “fatte in casa” e chi invece deve lavorare come uno schiavo per ottenere un tesserino professionale ma che nell’era dei social, in cui tutti possono pubblicare ciò che vogliono in tempo reale, conta fortunatamente poco, forse nulla.

Non solo Roberto Saviano, il più noto fra tutti, vive da qualche decennio super scortato e in località segrete. È lungo l’elenco dei giornalisti “anonimi” minacciati, picchiati, divenuti bersaglio delle cosche e spesso ignorati, a differenza dell’autore del libro Gomorra. Un piccolo plotone di coraggiosi prosegue nel disinteresse di tanti la battaglia di Giancarlo, spesso tra i sorrisi di sufficienza e gli sguardi straniti del resto della categoria. Paolo Borrometi è da tempo considerato “nemico” dalla mafia catanese perché ha scritto che alcune società che fanno capo a un padrino figurano nel prestigioso consorzio del pomodoro di Pachino. A Marilena Natale dal 2017 hanno assegnato la scorta: è nel mirino del clan dei Casalesi, i cui crimini ha raccontato a lungo. «La camorra non uccide i giornalisti», è stato ripetuto come un mantra subito dopo l’assassinio di Siani. Una menzogna, visto che all’epoca molti clan della Campania, tra cui Gionta e Nuvoletta, erano già affiliati alla mafia, che di cronisti ne ha ammazzati parecchi. Sconfitte, resistenza e qualche vittoria: migliaia di studenti, tutte le mattine, per circa duecento giorni all’anno, entrano in istituti scolastici intitolati a Giancarlo. Non è stato sempre così.

Nora Rizzi, fino a qualche anno fa preside di una scuola di Gragnano, a quindici chilometri da Torre Annunziata, ha dovuto trasformarsi in novella Giovanna d’Arco affinché il proprio istituto si chiamasse Siani. Era il 1993, cinque anni impiegò la preside “guerriera” per vedere affissa fuori la sua scuola quella targa che rende onore al sacrificio e al coraggio di un giovane uomo. Molto è stato fatto per conservare la memoria: in campo da anni alcune associazioni e soprattutto la famiglia di Giancarlo. Lo Stato ricorda invece il cronista ucciso a “giorni alterni”: A Napoli le “Rampe Siani” sono una scalinata imbrattata e sudicia, ricoperta di bottiglie abbandonate durante la movida, panni stesi, rifiuti e motorini parcheggiati sui gradoni. Durante un colloquio con una ventina di detenuti nel carcere minorile di Nisida, l’amara constatazione che appena uno di loro conosce Siani solo grazie alla televisione e all’opera di Marco Risi: «È il personaggio di un film», la risposta istintiva di chi associa Giancarlo alla faccia pulita dell’attore Libero De Rienzo, morto a quarantaquattro anni a causa di una dose letale di eroina.

Chi è nato negli ultimi trent’anni confonde inoltre il cronista con l’artista Alessandro Siani: di cognome fa Esposito e ha voluto farsi chiamare così in onore di Giancarlo, «stella rara che alla luce del sole non scompare, ma anzi è luce pura. La sua onestà – spiega Esposito alias Siani – è la bandiera che sventola ancora forte nel vento della libertà». L’attore non ha mai dimenticato il boato di voci che si leva il 29 settembre 1985 prima della partita Napoli-Roma. Un minuto di silenzio a sei giorni dal delitto del giornalista, giocatori sulla linea del centrocampo, poi l’urlo “Giancarlo, Giancarlo, Giancà…” Un coro assordante, gli oltre novantamila spettatori presenti allo stadio gridano e applaudono per oltre un minuto. Aveva dieci anni Alessandro, ma quel giorno gli è rimasto appuntato sul cuore. Quarant’anni dopo nel corso di una proiezione del film Fortàpasc, durante la scena in cui i due killer sparano per uccidere il cronista scoppia un applauso. Alcuni ragazzini della scuola media “Maiuri” del Vomero, che sorge a pochi metri da dove avvenne il delitto, non nascondono di fare il tifo per i camorristi nell’attimo in cui premono i grilletti.

Risate perdute e pizze non mangiate insieme. Forse con Giancarlo ci saremmo conosciuti e poi persi di vista. Lui, di qualche anno più grande, avrebbe deciso di lavorare in un altro giornale, quando ancora nascevano nuove testate. Avrebbe potuto lasciare Napoli, o cambiare mestiere. Solo una volta, invece, ci siamo incrociati nel corso di una manifestazione anticamorra a Torre Annunziata: era il 1982 e qualche migliaio di studenti sfilava per le strade contro il boss Raffaele Cutolo. Lui, Siani, era alla guida della Mehari, al suo fianco un cameraman filmava quei ragazzi un po’ folli, testardamente convinti che la camorra si potesse sconfiggere. E così quel collega con gli occhiali tondi l’ho dovuto conoscere meglio attraverso giornali ingialliti e verbali sgualciti, leggendo i suoi articoli e gli atti dei processi. Abbiamo “dialogato”, io e quel giornalista appena intravisto, tramite chi gli ha voluto bene. Così ogni tanto ci “sentiamo” attraverso Paolo, oppure Geppino Fiorenza, che fin dal primo giorno combatte affinché la Fondazione Siani resti un baluardo a difesa della memoria e della lotta alla criminalità.

Lo ritrovo nello sguardo e nel sorriso di Gianmario, classe 1990, nipote di uno zio mai conosciuto, nel quale a volte scorgo espressioni cristallizzate nelle foto di Giancarlo pubblicate tante volte. Tra le tristi incombenze che toccano ai familiari dei morti ammazzati, c’è il ritiro degli oggetti personali recuperati sul luogo del delitto. Dal vano portaoggetti della Mehari, qualche mese dopo la morte, saltano fuori una decina di musicassette, tutte registrate con un impianto stereo casalingo. I titoli dei brani sono scritti meticolosamente con la penna, come si usava fare negli anni Ottanta. Si va da Pino Daniele, con l’ellepì Nero a metà, a Patti Smith, passando per The Blues Brothers. Unica audiocassetta originale quella di Bruce Springsteen: Born in the U.S.A., il brano dell’icona del rock, spesso male interpretato.

La bandiera americana sulla copertina potrebbe far pensare a un inno patriottico, invece è l’amara costatazione dei disastri provocati dalla guerra in Vietnam, oltre cinquecentomila soldati mandati allo sbaraglio in terra nemica. Un po’ come Siani a Torre Annunziata, “soldato” di un esercito che non c’era, maledettamente lasciato solo sul fronte di un conflitto non dichiarato. «Sono nato in una città di uomini morti / Il primo calcio che ho preso è stato quando ho colpito il terreno / Sei finito come un cane che è stato picchiato troppe volte / Fino a quando spendi metà della tua vita solo a nasconderti…». Non si può consumare la propria vita, canta “The Boss”, a cercare un rifugio. Il “riparo” che Giancarlo, a differenza di tanti altri, non ha mai cercato.

14 Giugno 2025

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