Il libro
Colonialismo, dalle origini al neoliberismo: una storia criminale del mondo di Eugenio Raúl Zaffaroni
In Una storia criminale del mondo. Colonialismo e diritti umani dal 1492 a oggi il giurista argentino non si limita a passare in rassegna epoche, ideologie e violazioni. Offre una prospettiva di rilancio della lotta a difesa dei diritti umani, contro quel patrimonio criminale che, sotto vesti sempre nuove, continua a replicarsi
Cultura - di Stefano Anastasia

Il colonialismo come storia criminale del mondo: questa è la chiave interpretativa, non solo delle esperienze storiche della colonizzazione, ma della intera modernità che propone Eugenio Raul Zaffaroni, giurista argentino di fama mondiale, nel suo ultimo libro, scritto al termine di una lunga esperienza di giudice della Corte interamericana per i diritti umani e ora tradotto in italiano da Mario Croce, per la cura e con l’introduzione di Alberto Filippi, pubblicato dagli Editori Laterza con il titolo, appunto, di Una storia criminale del mondo. Colonialismo e diritti umani dal 1492 a oggi.
Il libro è molte cose insieme. Innanzitutto, sì, una storia, del colonialismo, delle sue epoche, delle sue ideologie e delle violazioni dei diritti umani da esso perpetrate. Ma è anche una proposta, conseguente alla scelta del suo punto di osservazione (il Sud, nuestroamericano e globale), non già di dismissione della idea universalistica dei diritti umani, ma di fiducia nella lotta per la loro effettività, contro tutte le repliche di quella storia pervicacemente criminale che arriva fino ai giorni nostri.
Zaffaroni articola la storia del colonialismo in quattro momenti: il colonialismo originario, l’epoca dei nazionalcolonialismi, la sopravvivenza nel mondo bipolare e il tardo colonialismo finanziario attuale, quello del “genocidio goccia a goccia”.
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Sin dalla periodizzazione, balza subito agli occhi il perdurare del paradigma coloniale, che attraversa la fase della cd. decolonizzazione della seconda metà del Novecento (senza però interromperne “l’esperienza criminale”) e si ripropone in nuove forme e con rinnovata forza ideologica nel XXI secolo. Il colonialismo per Zaffaroni è innanzitutto un sistema di potere, alimentato da una tradizione di pensiero che trasforma il principio di ragione in un principio di efficienza, e dunque in una razionalità economica di accaparramento e sfruttamento di natura, esseri umani e manufatti a beneficio dei più forti: i grandi imperi mercantili, gli stati nazionali, le due grandi potenze militari del secondo Novecento, i nuovi poteri del capitalismo finanziario contemporaneo, e poi – naturalmente – in e tra di essi, la classe imprenditoriale, i fratelli maschi che prolungano il patto patriarcale nel contratto sessuale della modernità, i bianchi europei e occidentali.
In quattro densi capitoli Zaffaroni ci squaderna sotto gli occhi il “patrimonio culturale criminale dell’umanità” prodotto dal colonialismo in ogni angolo del Sud del mondo, prima e mentre lo introiettava nei Sud del Nord, nelle periferie metropolitane, anch’esse depredate o allergiche ai paradigmi produttivi dei suoi centri di comando: i genocidi, gli stermini di massa, le deportazioni, la schiavitù, la marginalizzazione e la criminalizzazione (l’inversione del principio di responsabilità a carico delle vittime delle espropriazioni, della subordinazione e dello sfruttamento), fino a quelli che Luigi Ferrajoli definisce i crimini di sistema, come la progressiva riduzione delle possibilità di vita sul pianeta, crimini che non è possibile giudicare secondo i canoni del diritto penale, ma che non per questo possono restare intangibili e indiscutibili.
Questa lunga storia chiama in causa innanzitutto noi, europei generatori non solo di quelle pratiche, ma anche di quella razionalità produttiva illimitata che ne è all’origine. Dovremmo ricordarcene quando – giustamente – difendiamo l’Europa nella nuova contesa globale, in cui una parte dei nostri discendenti americani – quelli del Nord – vorrebbero (ri)colonizzarci, innanzitutto per marginalizzarci e poi magari per sfruttare le nostre residue risorse (intellettuali, morali, simboliche) nella nuova competizione economica globale. Dovremmo ricordarcene per riscoprire, anche nella storia europea, altre tradizioni, estranee alla logica del dominio; tradizioni capaci, forse, di rifondare l’Europa come continente di pace, questa volta non per necessità, come fu nel secondo Novecento, ma per scelta, come davvero pensarono i confinati di Ventotene.
Nel corso dell’intera modernità, l’idea e le pratiche coloniali hanno potuto convivere con la nascente tradizione dei diritti umani e con la loro positivizzazione grazie alla sub-umanizzazione, quando non alla de-umanizzazione di una parte sempre crescente del mondo, di quel mondo che – ci dice Zaffaroni – nasce con la colonizzazione originaria, con quella reciproca scoperta dell’altro prodotta dall’attraversamento dell’Atlantico sul finire del XV secolo. Il “mondo umano”, scrive Zaffaroni, non è il fatto geo-fisico del pianeta Terra, ma quell’habitat culturale in cui “hanno cominciato a stabilirsi reti di relazioni sociali tra tutti gli esseri della nostra specie”, quando gli abitanti di Eurasia e quelli delle Americhe hanno vicendevolmente scoperto di non essere soli. E la scoperta dell’Altro, se da un lato ha motivato la ricerca e la definizione di una umanità dei diritti, dall’altra ne ha consentito anche la ripetuta violazione.
Sub-umanizzazione e de-umanizzazione non sono altro che tecniche di neutralizzazione (lo vediamo ogni giorno a Gaza, nel Mediterraneo, nelle nostre carceri), che consentono ai consapevoli della immoralità dei propri comportamenti di convivere con essi. A questo è servita l’ideologia coloniale, da Juan Ginés de Sepulveda a Hegel, il primo memorabile per aver dato il destro alla replica di Bartolomé de las Casas (“una sentenza più incisiva di qualsiasi altra emessa dalla miglior Corte dei diritti umani attuale”, scrive Zaffaroni, p. 152); il secondo, Hegel, per aver sistemato nella sua filosofia della storia la pretesa coloniale del nazionalismo europeo. Il resto, gli altri, dagli evoluzionisti agli involuzionisti, dagli anticipatori ai teorici del razzismo biologico nazista, riecheggiavano, contando sul potere della forza, non certo sulla forza delle idee.
Lungo il corso della storia, insieme con la pretesa coloniale, si affermava però, come abbiamo detto, l’umanità dei diritti, ovvero il riconoscimento dell’uguale dignità degli esseri umani e dei loro bisogni fondamentali. Una storia che quando in Europa è ancora contrattualistica, oggetto dello scambio istituente tra le Corone e i potentati nazionali, nella teoria lascasiana è già universalistica. In realtà sono tre le storie dei diritti umani, secondo Zaffaroni: quella breve del diritto internazionale, affermatasi nella cattiva coscienza europea all’indomani della catastrofe umanitaria della seconda guerra mondiale; quella ideologica della cultura illuminista e post-illuminista che poteva convivere con la sua negazione patriarcale, razzista e classista nel colonialismo e nella gerarchizzazione sociale dei nascenti Stati nazionali europei; e quella altrettanto lunga dei fatti, della loro negazione, della loro rivendicazione, del loro riconoscimento, quella che in un lungo processo storico porta alla Dichiarazione universale, alle sue specificazioni, alle Corti regionali, secondo un’idea dei diritti in cui “sono le lotte popolari a spingere per il perfezionamento del diritto, che non nasce mai dai vertici del potere, bensì dalle molteplici culture vittimizzate” (p. 209).
Sono le culture vittimizzate “le vere protagoniste del progresso giuridico, grazie al loro potenziale di protesta e alle loro richieste di maggiore efficacia dei diritti umani”. E in questa idea di una resistenza culturale del Sud allo sfruttamento e al disciplinamento coloniale sembra sentirsi l’eco della tradizione degli oppressi di Walter Benjamin, che – fuori dalla linearità di un progresso inscritto nell’ordine delle cose – tiene viva la possibilità di un rivolgimento, in cui – diremmo noi – i diritti umani possano essere presi sul serio e porsi a fondamento di una civiltà della convivenza, tra gli umani, il pianeta e il vivente non umano. Forte è l’eco in queste pagine, non solo – genericamente – delle culture sudamericane, originarie e meticce, ma anche della ricerca del Pontefice venuto “dalla fine del mondo”: la dimensione ecologica della Laudato si e la fraternità universale della Fratelli tutti. Sono queste le risorse umane e culturali a cui spetta fronteggiare l’ultima ideologia coloniale, quella neoliberale, che sotto le vesti del riconoscimento del merito e nell’occultamento delle disuguaglianze, riecheggia l’antica dignità esclusiva dei dignitari di corte e crea le condizioni per il tramonto della democrazia partecipativa, per far spazio a una democrazia passiva, terreno di caccia dei nuovi autoritarismi in cerca di consenso a buon mercato.
Gli effetti, nel presente, sono sotto gli occhi di tutti, nella moltiplicazione delle disuguaglianze e nella involuzione autoritaria delle più antiche democrazie, nei rigurgiti patriarcali, nella crisi ecologica planetaria e nel ritorno della guerra come strumento di strumento di potere ed esibizione di potenza. Vista da quassù, resta la domanda di come si possano tenere insieme le resistenze del Sud con la tradizione degli oppressi, per evitare di riprodurre una distanza tra mondi o una solidarietà paternalistica, e anch’essa – in fondo – neocoloniale. Se “l’attuale sistema mondiale è insostenibile”, come conclude Zaffaroni, citando ancora una volta Francesco, e se “è giunta l’ora che lo spirito del Sud offra il suo contributo alla possibile riorganizzazione del pianeta”, noi europei post-coloniali non possiamo restare a guardare.