L'addio all'ex presidente dell'Uruguay
Chi era Pepe Mujica, il presidente dell’Uruguay che visse due anni in un pozzo
Gli anni in carcere, le evasioni, l’isolamento durato all’infinito, i giorni passati a nutrire rane e ascoltare le formiche. Poi il fronte delle sinistre, il governo, la saggezza, la ricerca continua dell’unità
Esteri - di Angela Nocioni

Quando, in un mattino d’estate australe, le guardie dell’inespugnabile prigione di Punta Carreta aprirono l’ultimo chiavistello della cella di sicurezza dov’era rinchiuso Pepe Mujica, tardarono qualche minuto a convincersi d’averla trovata vuota. Il minuscolo guerrigliero che conosceva a memoria la rete fognaria di Montevideo era riuscito a scappare anche da lì. Oggi Punta Carreta è un vecchio centro commerciale in disuso e Pepe Mujica un titolo sui giornali di tutto il mondo: se ne è andato a 89 anni, per un cancro, il Tupamaro diventato presidente dell’Uruguay. Dodici anni passati in cella di isolamento, gli ultimi due rinchiuso in un pozzo, i fori di sei pallottole nel torace, Pepe Mujica aveva mani da contadino e una etichetta che lo perseguiterà anche dopo morto: l’uomo della decrescita felice. Lui non la sopportava.
Ufficio di presidenza, Montevideo, 2010. Mujica che sbatte la rassegna stampa sulla scrivania: “No! Ma quale decrescita, non hanno capito niente gli americani, io sono per la ricchezza, un governo serio produce ricchezza sennò cosa distribuisce? La miseria?”. Presidente, ma lei ha annunciato un piano di austerità, cosa significa esattamente? “Non ci vuol molto per spendere fondi pubblici. Tutti possono farlo. Un governo serio deve creare ricchezza e non spendere quelle esistenti. Abbiamo bisogno di parsimonia e intelligenza. L’austerità è un modo per preservare la libertà individuale. È una lotta per la conservazione della libertà. Ognuno vive come vuole. Non credo di essere un esempio per nessuno, ma i momenti migliori della mia vita sono stati caratterizzati da condizioni materiali molto modeste”. Si è congratulato con gli uruguaiani per averla votata, perché? “Perché rappresento gli anni ‘70. Sono il guerrigliero che voleva la rivoluzione ma quell’utopia è anacronistica. Il nostro errore è stato credere di avere il diritto alla distruzione per costruire qualcosa di nuovo, e non sapevamo nemmeno esattamente cosa sarebbe dovuto essere. La vita mi ha insegnato che si può fare molto all’interno di una democrazia liberale. Più la democrazia è libera, più è facile creare un mondo migliore al suo interno. La nostalgia per un vecchio sogno passato non porta a nulla. La nostalgia fa bene all’arte e alla cultura, ma la storia si fa guardando al futuro, guardando avanti e non indietro. Sono ancora un socialista. Credo che non vivrò abbastanza per viverlo, ma si realizzerà il socialismo. Tuttavia, non come la mia generazione pensava erroneamente negli anni ‘70. È necessario prima creare una società con una prosperità diffusa, una società con un alto livello di istruzione”.
Cinque anni prima, debutto delle sinistre unite al potere in Uruguay. La prima volta del Frente Amplio al governo, un socialista light alla presidenza (Tabaré Vazquez, uno che giurava di pagare il debito col Fondo monetario fino all’ultimo centesimo) e la maggioranza interna del governo in mano all’ex capo della guerriglia degli anni Sessanta, quando Montevideo era attraversata dalle leggende guevariste. È il 2005, Mujica l’uomo chiave del governo. Se lo schieramento delle sinistre per la prima volta il 31 ottobre di quell’anno ha sconfitto le destre, ininterrottamente al potere da 170 anni, lo deve in buona parte al vecchio Mujica che ha accettato di traghettare il suo movimento, il Min Tupamaros, dentro la coalizione. Alla vigilia elettorale lo danno al Ministero della pianificazione. Alla fine gli rifilano la Pesca e le Attività produttive. Ma non funziona come recinto, Tabaré Vazquez senza di lui non può governare perché è Mujica che tiene insieme la coalizione. Mi spiega Mujica nel suo ufficio al Senato: “Tenere insieme le diverse correnti nel governo richiede molto lavoro e molta intelligenza. Ma la nostra gente vuole l’unità. Questo costituisce la condizione per il loro sostegno. L’alleanza di centro-sinistra non è opera di un leader. L’alleanza è una richiesta di base. È tenuta insieme dal basso con una semplice ricetta: chi rompe il fronte, perde. Invece di perseguire obiettivi finali assoluti secondo il motto ‘tutto o niente’, la sinistra deve mostrare maturità e cercare accordi. La massima è: negoziare, negoziare, negoziare! È importante costruire sempre ponti e non sbattere mai le porte, ma aprirle”.
Da quando in una giornata di sole del 1984, dopo settecento giorni senza luce, lo tirarono fuori dal pozzo e lo lasciarono libero, Pepe Mujica non ha mai smesso di vivere in una casetta modesta nella periferia di Montevideo, mai messo piede nella residenza presidenziale. Ha continuato a coltivare rose, a fermarsi verso mezzogiorno al chiosco dei fiori a due passi dal Parlamento. “Sono un veterano. Un vecchio che ha sbagliato parecchio, come tutta la mia generazione. Uno che ha deciso di essere coerente con quello che pensa tutti i giorni dell’anno e tutti gli anni della vita”. Degli anni Sessanta parlava controvoglia, ma i compagni uccisi ritornavano nei suoi discorsi come un’ossessione. “Molti di noi non sono usciti vivi dalla prigionia. Ci hanno tenuti quasi sempre legati. Sempre isolati. Nel pozzo dovevamo stare immobili in silenzio. L’ultimo segno di vita per tanto tempo sono state sette piccole rane. Le nutrivo con molliche di pane. Li sotto ho scoperto che le formiche gridano. Le ho ascoltate per mesi per non impazzire. Non potevo leggere, non potevo scrivere. A volte per pulirmi mi davano minuscoli pezzi di giornali. Li imparavo a memoria, li recitavo migliaia di volte”.
Uscito dal pozzo con l’amnistia del 1985 Mujica ritrova la compagna della sua vita, anche lei appena scarcerata, Lucia Topolansky. Lei viene da una famiglia alto borghese. Suo padre era un ingegnere, famoso costruttore locale. Famiglia bianca e ricca degli anni Quaranta, studi dalle suore. Collegio di domenicane. La militanza comincia alla facoltà di architettura negli anni Sessanta e l’idea era quella di fare del piccolo Uruguay la Cuba del Cono Sur. La rivoluzione fu solo teorizzata, i militari arrivati al potere nel 1972 e restatici fino all’85 dettero una caccia spietata ai Tupamaros che, nel frattempo, erano diventati il primo grande gruppo di guerriglia armata metropolitana del Cono sur. Lucia Topolansky se ne andò dall’università, non prima d’averci gettato dentro due bottiglie incendiarie, si unì ai Tupamaros e passò in clandestinità con il nome di «Ana». La sua grande storia d’amore dentro la guerriglia non fu con Pepe Mujica, ma con un altro guerrigliero, poi ucciso dai militari. La relazione con Mujica iniziò durante la clandestinità, fu interrotta dall’arresto di lei nel 1971. Riuscì a scappare sei mesi più tardi. Fu poi ricatturata. Si rincontrarono nel 1985, quando uscirono entrambi per la legge di amnistia. Di lei Mujica diceva: «A metterci insieme fu la paura». Alla domanda sulla loro relazione alza una mano, si fa serio e risponde: «Mi dispiace, non posso: non si racconta un amore così lungo».