Il nuovo libro e i bilanci
Roberto Saviano: “Ho sbagliato tutto, sprecato la vita, Salvini mi ha messo in una situazione assurda”
Lo scrittore sotto scorta dall'uscita di "Gomorra", suo romanzo no-fiction sulla Camorra: "Vorrei un'altra vita, la mia famiglia ha solo pagato. Quante volte ho pensato: basta, la chiudo qui"
Cultura - di Redazione Web

Ai funerali della zia Silvana, una seconda madre per lo scrittore Roberto Saviano, “la sensazione di aver sbagliato tutto”. Perché “non erano nemmeno funerali: non c’era nessuno. I miei vivevano a Caserta. Fin dal 2006 se ne sono dovuti andare nel Nord Italia, anche per mia responsabilità. Sradicati. Non sono riusciti ad aprirsi e si sono isolati. La mia scelta l’hanno pagata altri. Io ne ho fatto attività, impegno. La mia famiglia ha solo pagato”, ha dichiarato l’autore in una lunga intervista rilasciata a Il Corriere della Sera.
Ha appena pubblicato un ultimo libro, L’amore mio non muore, edito da Einaudi, ispirato alla storia di Rossella Casini, donna fiorentina scomparsa nel nulla nel 1981. Con un libro, Gomorra, no-fiction sulla Camorra, era cominciato il suo grande successo e anche la sua vita sotto scorta. “A un certo punto della mia vita pensavo di aver fatto qualcosa di talmente determinante, che mi sentivo diverso da tutti gli altri scrittori. Avevo un’ambizione ancora più delirante: non solo affermare il libro; accendere la luce sulle cose, mostrare la verità. Dare superpoteri ai lettori. Far vedere quello che la cronaca non ti mostra o ti mostra a pezzi”.
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Immaginava di vivere al massimo fino a 30 anni, fino a quando non l’avrebbero ucciso. “Salvini (vice primo ministro del governo Meloni e segretario della Lega, ndr) dice: gli toglieremo la scorta. Mi ha messo in una situazione assurda: come se la scorta fosse un merito, un premio. Ma ci sono persone terribili che vengono scortate”. A mancargli di più è la libertà di movimento, la clausura che gli preclude le relazioni personali. Si sente come all’ergastolo, “vivo recluso, senza vederne la fine”.
Ha raccontato di soffrire attacchi di panico e di aver pensato più volte al suicidio. “Quante volte ho pensato: basta, la chiudo qui. Avevo anche deciso. La risposta del mio corpo fu una scarica di nervi. E sono crollato. Mi ero messo davanti allo specchio. E capii che la soluzione non era quella. Quando vivi tra caserme e armi, come me, puoi misurare davvero cosa significa impugnare una pistola e rivolgerla contro te stesso. Non l’ho fatto, ma da allora mi ripeto: da questa storia non ne esci”.
“Vorrei un’altra vita. Vorrei non sentire così forte di aver buttato questa che ho. Una volta incontrai il pentito Carmine Schiavone che svelò un piano contro di me. I carabinieri mi misero i microfoni addosso. Il boss mi disse: ‘Tu e io siamo uguali. Il nostro destino è lo stesso. Non ci perdoneranno mai’. Mi diede un immenso fastidio un boss, un ex boss che diceva di me: ‘Io e te abbiamo lo stesso destino’. Non è così, comprendere il male non significa farne parte; ma se vedi l’abisso, poi l’abisso vede te. Schiavone mi disse proprio così: ‘Tu credi che si dimentichino di te? Ormai sei un simbolo‘. E i simboli sono solo bersagli”.