L'intervista
“Il neoliberismo non esiste più, ce lo dice perfino Draghi”, parla Alfredo D’Attorre
«La sinistra non può fare l’ultimo giapponese del neoliberismo»
Economia - di Umberto De Giovannangeli

Alfredo D’Attorre, responsabile Università e Ricerca nella Segreteria nazionale del Partito Democratico. Quale lezione “politica” ha lasciato al mondo Papa Francesco?
La principale lezione è quella che è stata ignorata o apertamente contrastata da diverse facce di bronzo che hanno partecipato al suo funerale spinte solo dalla ricerca di visibilità mediatica. Papa Francesco ha agito fin dall’inizio con la consapevolezza che l’Occidente è oggi solo una parte di un mondo che si è fatto più grande e plurale. Al fondo del suo messaggio c’è stata l’idea che in un mondo del genere solo il dialogo, il rispetto delle diversità e la composizione di interessi divergenti, non l’imposizione di un unico punto di vista, potessero evitare la trasformazione della “terza guerra mondiale a pezzi” in un vero conflitto globale.
Bergoglio è stato punto di riferimento anche per le tante e i tanti che non erano credenti. Ha ragione chi dice che è stato l’ultimo vero leader della sinistra mondiale?
Non mi convince questa definizione, non rende giustizia al respiro del suo magistero e lo schiaccia in una dimensione politico-partitica. È senz’altro vero che Bergoglio ha saputo parlare a tanti non credenti, colpiti dalla forza e dal coraggio del suo linguaggio, specie se comparati alla “lingua di legno” e alle ipocrisie della politica ufficiale. Ed è vero che Bergoglio ha colto la fine di un’epoca, quella in cui l’Occidente era il centro incontrastato del mondo e il suo sistema economico capitalistico sembrava desiderabile per tutti, con molta maggiore lucidità di quanto abbia fatto una certa sinistra. Della destra manco a parlarne.
Non passa giorno che non arrivi una notizia spiazzante dagli Usa, dai dazi agli attacchi alle università. Cosa sta succedendo agli USA?
Il racconto quotidiano sembra offrire continui colpi di scena, ma, se proviamo a guardare le cose con più distacco, sta accadendo quello che in realtà era abbastanza prevedibile fin da quando ha iniziato a profilarsi la rielezione di Trump: il suo secondo mandato avrebbe avuto caratteri di rottura più radicali del primo. Ciò rende ancora più grave la sconfitta dei dem americani, che hanno perso milioni di voti e si sono fatti travolgere da candidato che non aveva nascosto nessuna delle sue intenzioni, dalla deportazione dei migranti all’attacco all’autonomia delle università. Personalmente non credo che ora basti lanciare allarmi sulla tenuta della democrazia americana per costruire un’alternativa. Trump è il sintomo e l’esito della crisi di un certo ordine liberaldemocratico, in America e in Occidente, non ne è la causa. Quei liberali che pensano si possa sconfiggere Trump solo con la demonizzazione personale e l’appello a sia pur sacrosanti principi procedurali, senza mettere profondamente in discussione la linea di politica economica e di politica estera che ha condotto i dem americani al disastro, non hanno capito nulla del mondo in cui siamo e rischiano di incatenare la sinistra a un posizionamento perdente.
Ad ossequiare Trump è accorsa anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Con quali risultati?
Risultati forse utili per la sua immagine e il suo accreditamento personale, sicuramente inconsistenti o addirittura negativi per il Paese di cui dovrebbe rappresentare gli interessi. Quando Trump le chiede di comprare maggiori quantità del costoso gas americano e più armi americane, di non tassare le grandi aziende digitali, di mettersi al seguito degli Stati Uniti in uno scontro commerciale totale con la Cina, e lei dice sì, la domanda da porsi è semplice: mentre Trump sta facendo o pensa di fare gli interessi del suo Paese, la Meloni quali interessi sta difendendo? Certamente non quelli dell’Italia e dell’Europa. Una subalternità imbarazzante: siamo passati dal patriottismo italiano a quello trumpiano. Con questo atteggiamento non c’è nessuno spazio per l’autonomia strategica europea e per una alleanza con gli Stati Uniti su basi di rispetto reciproco. C’è spazio solo per il vassallaggio, altro che sovranità.
Diversi osservatori sottolineano che per Trump il multilateralismo diventa un ostacolo, il G7 una liturgia vuota e gli alleati sono solo gregari. Siamo a un punto di non ritorno nel rapporto con gli Stati Uniti?
Anche qui dobbiamo guardarci dagli errori verso cui vuole portarci un certo establishment liberale spiazzato e ormai incapace di orientarsi, intrappolato com’è nelle sue contraddizioni e nei suoi doppi standard. Gli stessi che lodavano in nome dell’atlantismo l’appiattimento acritico delle leadership europee sulla linea di politica estera di Biden ora rappresentano gli Stati Uniti come se fossero diventati un nemico. Ciò che un certo turbo-occidentalismo liberale non riesce proprio a elaborare è il concetto di autonomia europea nell’alleanza con gli USA. Un’autonomia da far valere per difendere gli interessi dei cittadini europei, non per partecipare alla battaglia politica interna negli Stati Uniti. Trump sta prendendo decisioni terribilmente sbagliate, ma il protezionismo americano, con il massiccio ricorso agli aiuti di Stato, era cominciato già con la precedente amministrazione, non dimentichiamolo. La politica dei dazi come strumento di ricatto è inaccettabile, ma la sinistra non deve fare l’errore di apparire come l’ultimo giapponese che difende i resti di un ordine neo-liberale che non regge più: una globalizzazione senza regole, un liberoscambismo estremo, il predominio della finanza sull’economia reale e sulla politica, un impianto mercantilistico fondato sul primato delle esportazioni e sulla compressione della domanda interna e dei salari. Ce lo sta dicendo persino Mario Draghi nella sua seconda vita, con un’apprezzabile autocritica, dopo che nella sua prima vita aveva avuto un qualche ruolo nella costruzione del vecchio ordine.
Ha ragione chi dice che questa situazione apre nuove possibilità per l’Unione europea?
In teoria sì, ma ciò richiede un ripensamento piuttosto profondo della linea di politica economica, dei meccanismi di governance e della politica estera. Di tutto ciò al momento si vede molto poco, per almeno due ragioni fondamentali. La prima è che è molto difficile che ciò possa avvenire con l’Unione europea a 27, segnata da profonde differenze di interessi economici e geopolitici. La seconda è che purtroppo è improbabile che le stesse leadership europee, che hanno compiuto gli errori di analisi della fase precedente, possano diventare gli interpreti credibili di una svolta.
La pace va conquistata con la forza. È la linea Macron-Starmer-Von der Leyen. È questa l’Europa per cui battersi?
No, questa è l’Europa spiazzata e sconfitta dagli sviluppi storici, rispetto alla quale bisogna voltare pagina. L’immagine di Macron che prova inutilmente a inserirsi nel confronto fra Trump e Zelensky rimarrà come il simbolo del fallimento dell’Unione europea nella guerra in Ucraina. Un’Europa che non è riuscita a darsi una dimensione unitaria e autonoma di politica estera, nemmeno con il nucleo dei Paesi fondatori, che si è appiattita sulla linea sconsiderata di trasformare la necessaria difesa dell’Ucraina in una guerra da condurre fino alla sconfitta totale della Russia, che ha rinunciato a svolgere qualsiasi ruolo negoziale e che ha aperto praterie alla diplomazia affaristica e spregiudicata di Trump. Oggi giustamente anche molte persone a cui non piacciono Trump e i suoi metodi si chiedono: ma perché prima della sua elezione non è stata l’Unione europea a mostrare un minimo di autonomia rispetto a Biden e a nominare un negoziatore comune che aprisse colloquio con la Russia, in una fase peraltro in cui gli interessi dell’Ucraina si sarebbero potuti tutelare da una posizione di maggior forza?
Quale dovrebbe essere la proposta alternativa della sinistra europea? E perché essa appare così smarrita e sulla difensiva?
Il discorso sarebbe lungo, ma c’è un punto decisivo dal quale ripartire: che idea di Europa abbiamo? Quello di una fortezza che decide di puntare sul riarmo per giocare un ruolo a livello globale e che aspetta il prossimo Presidente degli Stati Uniti per tornare allo schema Occidente contro resto del mondo, democrazie contro autocrazie? O un’Europa che, con un formato più compatto e credibile, si pensa come soggetto autonomo, in grado di svolgere, nel quadro di un’alleanza non subalterna con gli Stati Uniti, un ruolo di dialogo, di mediazione, di rilancio del multilateralismo e della cooperazione internazionale, di promozione del disarmo. Il PD deve stimolare il PSE ad affrontare questo nodo strategico, passaggio essenziale per uscire dalla crisi e dallo smarrimento attuale. Se l’alternativa a Trump, Milei, Meloni, Orban resta un certo establishment liberale sconfitto dalla Storia, prepariamoci a tempi ancora più bui.
L’aumento delle spese militari implica necessariamente una riduzione della spesa per il welfare. Ma anche il PD non nega l’esigenza di rafforzare la difesa comune europea.
La difesa comune europea implica anzitutto un rilancio dell’integrazione politica con chi ci sta, come giustamente sottolinea Elly Schlein. In quest’ottica, ciò comporta piuttosto una razionalizzazione e perfino un contenimento della spesa militare. Inoltre, affrontare oggi in termini seri il tema della sicurezza europea non significa riempirsi di armi convenzionali per evitare l’imminente arrivo dei cosacchi a Roma o a Parigi (prospettiva che nessuna persona intellettualmente onesta può ritenere plausibile), ma investire in quei settori su cui oggi l’Europa sconta un grave ritardo e una preoccupante dipendenza dall’esterno. Per fare esempi concreti, come europei noi siamo a rischio e la nostra autonomia non è garantita perché siamo deboli su cybersicurezza, cloud per i dati sensibili e sistemi satellitari, non perché ci manchino missili e carri armati.