L'autore e giornalista
“La vita di Beirut, laboratorio di modernità e arena di autodistruzione”, parla Riccardo Cristiano
Sospesa tra Ottocento e Novecento, cosmopolitismo e identitarismo. “Affascinante e debole, come tutte le terze vie”
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Riccardo Cristiano conosce il Medio Oriente come pochi. Lo ha raccontato per decenni, da inviato e corrispondente Rai. E poi da scrittore. Tra i suoi libri, editi da Castelvecchi, ricordiamo Siria. L’ultimo genocidio. Così hanno vinto i nemici del dialogo; Dall’Oglio. Il sequestro non deve finire; Siria. La fine dei diritti umani; Figli dello stesso mare. Francesco e la nuova alleanza per il Mediterraneo; Bergoglio o barbarie. Francesco davanti al disordine mondiale; Medio Oriente senza cristiani. Dalla fine dell’impero Ottomano ai nuovi fondamentalismi. In questi giorni nelle librerie il suo ultimo libro Beirut. Il mosaico arabo, un saggio tra storia e politico e al contempo una dichiarazione d’amore per una città perennemente in sospeso tra speranza e dolore.
Cosa simboleggia Beirut nel mosaico “impazzito” mediorientale?
È molto interessante la definizione che il grande intellettuale libanese, Samir Kassir, ha dato di Beirut: “metropoli araba, occidentalizzata, mediterranea”. Beirut è questo; quando è riuscita a tenere in tensione polare, vitale, il mare, quindi l’oltre europeo, e l’entroterra, la società arcaica da cui tutti loro provengono, è divenuta laboratorio di modernità, quando ha fallito è stata l’arena dell’autodistruzione. La sua avventura è come un romanzo: costruisce civiltà nell’Ottocento, quando capisce il nazionalismo esportato in quelle terre dagli europei come autodeterminazione, abbandono del sistema feudale, sovranità che viene dal basso, per tutti. Questo nell’Ottocento ne ha fatto la perla delle riforme ottomane, la nuova metropoli cosmopolita, con un ceto borghese e camalli sindacalizzati. Nel Novecento invece, grazie in particolare al pessimo colonialismo francese, il nazionalismo è diventato identitarismo settario, e la città arena dell’autodistruzione. Il centro di Beirut, anche architettonicamente promiscuo, è stato combattuto durante la guerra civile dai falangisti, la destra identitaria cristiana, poi da Hezbollah, i miliziani khomeinisti, fino all’incredibile esplosione del 4 ottobre 2020. I primi volevano che Beirut assumesse una dimensione tutta europea, viali lunghi e larghi, tipo Parigi, o Berlino. Hezbollah invece intendeva farne, come dimostra l’esplosione del porto, una santabarbara, in realtà più persiana che iraniana. Beirut insomma dice a chi la guardi di scegliere: Ottocento o Novecento? Inoltre, Beirut simboleggia la libertà: in economia, contro il dirigismo della Siria degli Assad e la rendita parassitaria dei petromonarchi e dei loro famigli. Certo, è stata una libera impresa da subito opaca, ma affluente proprio per il fallimento delle altre due. E poi la libertà a Beirut è stata anche quella di pensiero e stampa. I dissidenti andavano lì sia dai paesi dei colonnelli che da quelli degli emiri. Insomma, Beirut è affascinante e debole, come tutte le terze vie.
Cinquanta anni fa esplodeva la guerra civile in Libano. L’inizio di una lunga scia di sangue e divisioni che macchia ancora oggi il Paese dei Cedri. È il destino del Libano?
Beirut ha una storia diversa da quella del Libano. Il professor Traboulsi ci dice che dal 1920 al 1970 il 35% dei seggi nel Parlamento libanese è stato appannaggio di esponenti di sei famiglie. Il dato non è equivocabile, ma non è esaustivo; infatti, tra il 1922 e il 1943 si sono trovati deputati provenienti da 103 diverse famiglie, delle quali 80 non hanno avuto eletti nelle elezioni del 1968. Ma il punto di Traboulsi ottiene autorevole conferma da uno studioso quale Samir Khalaf, che dei deputati delle sei grandi famiglie ricordate non ha trovato traccia di attività politica se non la cura del loro collegio elettorale, o per meglio dire degli interessi dei loro clienti. Jens Hanssen ci offre l’altra prospettiva, quella beirutina. Nei primi quarant’anni di storia dell’amministrazione municipale di Beirut i dodici consiglieri sono stati quaranta sunniti, provenienti da ventisei diverse famiglie, ventotto greco-ortodossi appartenenti a quindici famiglie, ventitré maroniti provenienti da diciannove diverse famiglie, due greco-ortodossi della stessa famiglia e poi un ebreo, un armeno e due protestanti. Dato probabilmente ancor più importante è la loro estrazione sociale: la maggioranza dei soggetti in questione proveniva dal ceto medio e imprenditoriale, la metà poi aveva firmato la rivoluzionaria petizione al Sultano con cui 80 notabili di tutte le comunità di fede avevano chiesto, insieme, di fare di Beirut una capitale provinciale dell’Impero, quale divenne nel 1889. Se non erano proprio firmatari, avevano un parente stretto tra i firmatari di quello che per me è l’atto di nascita della città araba, occidentalizzata, mediterranea. E non se ne capisce la portata se non si ricorda che quei notabili appartenevano non solo a comunità di fede diverse, fuggiaschi dalle guerre confessionale che intorno al 1860 si è combattuta sulle montagne.
Cosa resta di Hezbollah dopo la “decapitazione” della sua leadership da parte israeliana?
Io spero che Hezbollah possa trasformarsi da partito iraniano in partito libanese. Il partito in armi risponde a un progetto imperiale iraniano, o per meglio dire persiano, quale era il vecchio impero che sotto sotto vorrebbero rifare. Un Hezbollah disarmato invece sarebbe un partito libanese, e rappresenterebbe in un Paese che aspira al cosmopolitismo, ma che è intriso di identitarismi, le idee teocratiche che esprime. Se questo accadesse, ne trarrebbe un grande vantaggio soprattutto la comunità sciita, che finalmente si libererebbe dalla milizianizzazione forzata e tornerebbe a poter porre la questione della discriminazione sociale che gli sciiti hanno patito nei tempi passati e di cui ancora soffrono, ad eccezioni dei signori legati agli affari illegali del partito. Se le cose non andranno così Hezbollah rimarrà la giustificazione delle azioni militari israeliane e quindi ritarderà la ricostruzione del sud del Paese.
Il Libano come laboratorio di un dialogo interreligioso che si proietta nella politica e nelle istituzioni. Dialogo è ancora una parola possibile nel vocabolario libanese?
Se significasse ancora sistema confessionale spero di no. Il confessionalismo libanese è fallito, pur avendo svolto una funzione rilevante per liberarsi dal colonialismo francese. Ma oggi è l’imposizione di una casta. Infatti, la Costituzione libanese prevede di libarsene e già negli accordi di pace del 1990 si ipotizzavano due Camere. Una confessionale, come l’attuale, eletta su base confessionale, su quote prestabilite, e una dove si dovrebbe votare come da noi. Così le comunità avrebbero tutte le dovute garanzie, ma non ci sarebbe solo la dimensione comunitaria, ma anche quella individuale: i partiti interconfessionali sarebbero il modo migliore per costruire legami reali tra persone di diverse fedi ma dalle idee politiche simili. Amin Maalouf ricorda che il Partito Comunista, che esisteva in Libano come altrove, creava legami tra sciiti, cristiani e sunniti. Questo sistema non confonde le garanzie alle comunità con la protezione, in cambio di fedeltà.
Comunitarismo etnico confessionale e ricerca di un’identità etnico-confessionale condivisa. È un bivio non solo libanese.
Il comunitarismo, etnico o confessionale, non è un destino arabo. Provo a indicare tre punti storici decisivi: il primo è la pessima idea di tradurre il termine “nazione”, esportato in quelle terre con la spedizione napoleonica del 1798, con “millet”, il vocabolo che gli ottomani usavano per indicare le comunità di fede. Ecco che compare nelle cronache del tempo, ad esempio, il termine “nazione cristiana”. È un equivoco che peserà. Molte indipendenze nazionali seguono questo principio di nazione confessionale. Dopo l’Ottocento, che capisce e accetta l’idea europea di nazione come indipendenza, liberazione dal sistema feudale, sovranità che viene dal basso, arriva l’impresa coloniale, vissuta come un tradimento: niente sovranità, niente addio al feudalesimo, nessuna sovranità dal basso. Ma c’è di peggio: nel 1920, quando i francesi insediarono il generale Henri Gouraud a Damasco, il suo segretario, il diplomatico e visconte Robert de Caix de Saint‑Aymour, gli disse (stando alla ricostruzione storica di Peter Shambrook) che a suo avviso erano disponibili solo due opzioni: “costruire una nazione siriana che non esiste, ammorbidendo le profonde frizioni che la dividono, o coltivare e mantenere questo fenomeno, che richiede il nostro arbitrato, ciò che queste divisioni ci offrono. Devo dirle che la seconda opzione è la sola che mi interessi”. Così gli arabi nel Novecento, a differenza di quanto avevano fatto soprattutto a Beirut nell’Ottocento, si sono definiti non con gli europei, ma contro di loro, perché colonialisti. I panarabisti laici lo fecero pensando di combattere e creare la “nazione araba”, incuranti che ci fossero tra loro anche non arabi, e i religiosi pensando prioritario combattere l’egemonia culturale europea, lo Stato laico, con la creazione di Stati governati con la legge islamica, incuranti del fatto che tra loro ci fossero anche non musulmani. Ma c’è una cosa che tutti loro hanno imparato dai colonialisti, l’arte del malgoverno. Ecco, dunque, il paradigma dell’unicità: una nazione vuol dire una confessione, e un capo, un’etnia, e un capo, un partito, e un capo. Le terre desolate di Iraq, Siria e Libano di cosa hanno bisogno? Forse, come hanno fatto gli europei, di smettere di farsi la guerra e pensare a unirsi, per vivere insieme, diversi nel mosaico arabo. Cioè, basta con la Siria che non riconosce la sovranità libanese, l’Iraq e la Siria che si contendono la leadership panarabista, nella comune discriminazione dei curdi, non arabi.
In tutto questo, Beirut?
Beirut, non l’arena dell’autodistruzione novecentesca, ma il luogo produttivo di modernità nell’Ottocento, parla a tutti di incontro, di possibile ricomposizione del mosaico libanese, siriano, iracheno, terre devastate dalle guerre, forse in un nuovo confederalismo non settario. Non c’è un termine per identificare questa area; non è la Mezzaluna fertile, non è il Levante. Sono tre Stati che esistono come non esistevano, che sono congiunti, limitrofi, e potrebbero avviare un loro cammino. Provengono da ciò che è stato l’impero romano d’Oriente, in realtà Basilèia Romàion, Regno dei Romani, un plurale che esiste da allora.