"Sono un luxemburghiano sconfitto, e me ne vanto"
“La politica è morta, in particolare la sinistra”, parla Fausto Bertinotti
La sinistra, che o torna radicale o non è e non sarà più sinistra, il governo Prodi e la torsione capitalistica della società, culminata nell’attuale riarmo. Ma di sè dice: “Chi sono io? Un sindacalista”
Interviste - di Graziella Balestrieri

Fausto Bertinotti, che il 22 marzo ha compiuto 85 anni, la storia del nostro paese l’ha vissuta da protagonista. La sua è la storia di un sindacalista – così vuole un giorno essere ricordato – anche se è stato presidente della Camera. C’è una locandina di Paul Klee davanti alla porta del suo appartamento. E sotto, come a formare un pilastro, una di Vasily Kandinsky. Ci accoglie la signora Lella, gentile nei gesti prima e nelle parole poi, moglie di Fausto Bertinotti.
Presidente, non le è sembrato troppo forte dire “avrei tirato un libro in testa a Giorgia Meloni?”
Volevo segnalare che era stato superato, da parte del presidente del Consiglio, cioè da una carica istituzionale, un limite politico-culturale, secondo me insormontabile: il rispetto per le persone e le situazioni dalle quali, come diceva Piero Calamandrei, è nata la Costituzione Repubblicana. E allora, di fronte a un attacco che tocca proprio il fondamento della Costituzione repubblicana, ci vuole una reazione che sia apprezzabile come l’indignazione.
Quindi non si pente? I giornali oggi sono stati abbastanza pesanti, con titoli aspri verso di lei: “Bertinotti, non sa più quello che dice, la violenza verbale da parte della sinistra…”
No, assolutamente. Non mi pento. Bisognerebbe sapere che una dichiarazione non è un atto di violenza, ma è una dichiarazione. E poi la reazione, secondo me, conferma che la scelta del gesto è la scelta necessaria, sennò passa tutto in cavalleria, diventa tutto ordinario. Perlomeno anche questa reazione della destra dice che il punto è stato segnato, tu ti arrabbi, attacchi, va bene. È questo che in realtà volevi suscitare, cioè il fatto che da parte mia, nostra, c’è un’indignazione e da parte vostra c’è una reazione scomposta come l’atto che l’aveva provocata.
E non ha paura che questo gesto forte possa creare emulazioni?
Ma no, quando mai è accaduto? Invece è accaduto nella storia parlamentare, che persone nobilissime del Parlamento abbiano compiuto degli atti di vigoria fisica. È accaduto nella storia della Repubblica, in situazioni di contrasto che hanno fatto grande il Parlamento. Non c’entra niente tutto questo con la società civile, stiamo parlando del Parlamento e di atti simbolici.
Torniamo alla sua storia, alla sua sinistra, alla sua cultura…
Ho una cultura molto originale anche nella sinistra, e però anche troppo compatta, non è facile riarticolare i ragionamenti, ma basta così.
No, no, aspetti: compatta in che senso?
È un tratto anche di generazione, siamo cresciuti con delle impronte che venivano ulteriormente calcate. Noi discutevamo con i classici del movimento operaio come se fossero contemporanei, cioè per noi il dibattito tra Lenin, Trotsky, Bucharin e poi l’avvento di Mao Tse Tung, il mito di Rosa Luxemburg, non erano un pezzo di storia, erano un pezzetto di attualità. La nostra discussione non poteva prescindere non dalle citazioni, ma dalla connessione coi Grandi, al punto che ci definivamo secondo questi riferimenti. Io mi sono sempre detto luxemburghiano, ma la maggior parte dei compagni con cui ho lavorato erano leninisti, la stragrande maggioranza. Questo, quindi, dà in qualche misura una compattezza di impostazione che deriva da un’impronta ideologica a cui io non ho mai rinunciato. Ancora adesso se tu mi chiedi come mi definisco, ti rispondo che mi definisco, nel movimento operaio, luxemburghiano. Questa ascendenza è così forte che dà luogo in qualche misura a una prevedibilità, ma anche a dei binari. È come se tu stessi costantemente su un convoglio che sta su dei binari e nel convoglio tu ti muovi moltissimo. Ma dal convoglio, non esci mai.
Lei ha militato in molto partiti.
Sono stato Socialista, poi il Psiup che era un partito della sinistra socialista, anzi, per quelli raffinati non era una sinistra socialista ma era un socialismo di sinistra, il che voleva dire proporre l’uscita dallo stalinismo da sinistra. Poi sono entrato nel partito comunista quando il Psiup si è sciolto e poi dopo lo scioglimento del Pci sono andato in Rifondazione comunista. Ma in tutto questo percorso quell’impronta è rimasta un elemento fondativo della ricerca e molti tratti di tutta la mia vicenda politica successiva sono molto legati a quell’origine. Per esempio, il primato del movimento sull’organizzazione, cioè il primato del movimento sul partito e del movimento sul sindacato, e ancora il primato del conflitto di classe rispetto alla politica, alla rappresentanza politica. E poi c’è l’elemento cardine, il rifiuto sistematico della guerra in ogni sua forma, che ovviamente ha a che fare con il fatto che Rosa Luxemburg, sui crediti di guerra nella Germania di Weimar, che precede la Prima guerra mondiale, realizza la scissione della socialdemocrazia tedesca, e forma il movimento spartachista. Ci sono dei tratti che restano nella formazione politica. Il valore del dissenso, il rifiuto di ogni forma di autoritarismo, ad esempio.
Ma lei vede viva oggi questa forma di dissenso?
Io purtroppo penso che la politica sia morta, proprio la politica in generale. La politica intesa come nozione di sé, come governo della società e non come governo del governo, come governo della società, come forma di costruzione, costruzione di un popolo, costruzione di una democrazia, costruzione di un modo di stare nel mondo, cioè la politica come scienza autonoma che contribuisce alla liberazione dell’umanità. In particolare è morta la sinistra politica.
Parla dell’Italia?
No, parlo dell’Occidente. Trump e Musk, il binomio, rende evidente questa rottura. Noi finora siamo stati in un ciclo di transizione cominciato quando è finito il Novecento, che è stato il secolo, insieme alle tragedie, della più grande speranza dell’umanità. La rivoluzione come liberazione, come liberazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, viene sconfitta nel Novecento, ma attraversa il Novecento. Come dirà un grande storico è stato “il secolo breve”, ma breve in quanto precisamente comincia col diciassette e finisce, alla fine del secolo, con la sconfitta del Movimento operaio. Dopo questo vengono venticinque anni circa di egemonia del pensiero liberale. Addirittura, lei sa bene che la previsione è la fine della storia. Su questa previsione totalmente infondata si costruisce in Europa il ciclo liberale. Cioè, la sinistra storica esce di scena con lo scioglimento del Partito Comunista e ciò che accade lì attorno. Noi con Rifondazione Comunista tentiamo di prolungare questo ciclo volontaristicamente ma non ci riusciamo. E quindi esce di scena la sinistra del Movimento Operaio e prende il suo posto, senza ereditarne alcunché, una sinistra liberale. E addirittura governa nella prima fase della globalizzazione capitalistica. Governa tutti i paesi europei prendendo il nome di centrosinistra appunto, non sapendo più come definirsi. Prima ci chiamavamo comunisti, socialisti, socialdemocratici. Nomi a cui corrispondevano non cose ma popoli, politica, idee. Poi si chiama, in termini indefiniti, Ulivo, o come si vuole. Ma insomma, si perde il nesso tra la definizione di sé e che cosa si vuole essere e si diventa per assimilazione liberali. Non per scelta, per assimilazione. Si diventa liberali perché si pensa di essere così più adatti a governare la globalizzazione. E a quel punto piomba sulla sinistra politica è la pietra tombale perché la globalizzazione costruisce un capitalismo incompatibile con la democrazia che poi diventerà addirittura capitalismo di guerra. Questa costruzione, che imprigiona forze che guardavano dentro un mondo caratterizzato insieme dall’innovazione più radicale tecnico-scientifica e contemporaneamente dalla costruzione della società sulla ingiustizia, si prende la scena con un rovesciamento del paradigma che aveva guidato tutto il lungo dopoguerra, cioè quella delle costruzioni democratiche secondo cui democrazia e eguaglianza sono sinonimi. Si spezza questo binomio, assolutamente, e la democrazia galleggia sull’ingiustizia, su una società che ha come perno l’ingiustizia. Questa costruzione demolisce il popolo, demolisce la democrazia e sì – adesso non voglio fare troppo grande la somiglianza con gli anni Trenta – si espone all’offensiva della destra populista. L’America parla di noi e Trump parla di noi, perché parla appunto di un populismo nichilista che prospera sulla lunga perdita di democrazia operata dal ciclo liberale. Quindi perde il movimento e perde il Novecento. Si instaura un ciclo liberale che produce un nuovo capitalismo, quello della globalizzazione. Il capitalismo della globalizzazione erode la democrazia, costruisce sistemi oligarchici fondati sulla disuguaglianza e la compatibilità, Maastricht insomma per parlare dell’Europa, e si espone alla vendetta della destra populista. E la sinistra non c’è, non c’è più, non è in campo.
A livello umano ha sofferto quando ha visto che la sinistra si stava sgretolando?
Continuo, continuo a soffrirci, a soffrirci.
Ancora oggi? E non vede una rinascita?
Ancora oggi, certo. No, io penso che la rinascita sia fuori da questo ciclo, è fuori da questo ciclo e fuori da questa politica. La rinascita sta altrove, la rinascita sta in quei fili d’erba, in quelle scintille che possono essere promossi dal conflitto.
Quando ha deciso di entrare in politica?
Più di sessant’anni fa. Luglio del 1960. Sono i morti di piazza del luglio del 1960, contro la convocazione permessa dal governo Tambroni, del congresso del Msi a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza a far scoccare la scintilla. Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, in un comizio in piazza, già una piazza tumultuosa, chiama alla rivolta i genovesi. Rivolta fisica. In quelle piazze, a Genova, a Milano, Roma, le città emiliane, nasce una generazione politica, che avrà infatti una definizione persino nominalistica, la generazione delle “magliette a strisce”, perché portavamo quasi tutti delle magliette che costavano pochissimo ed erano a righe orizzontali. E nasce sull’antifascismo militante. Infatti, la prima organizzazione a cui aderisco, prima ancora dei partiti, si chiamerà Nuova Resistenza, per dare l’idea del tempo e perché anche siamo rimasti così, perché questa frontiera dell’antifascismo continua a nutrire le nostre speranze, i nostri sogni, i nostri ricordi. Insomma, il motto di Piero Calamandrei: “Ora e sempre Resistenza”.
E i fascisti di allora come se li ricorda?
Naturalmente orribili! Dopo quegli anni, anche un po’ prima, andavamo a incontrare i vecchi partigiani con i magnetofoni per sentire i racconti: erano i racconti sui fascisti di Salò che insieme ai nazisti facevano i rastrellamenti nelle montagne del Cuneese e sui colli del Novarese, e si erano macchiati di stragi infami.
Però l’Italia sembra sempre dimenticare in fretta.
La mia generazione ha quasi come una colonna sonora la ballata scritta da Fausto Amodei, un amico, un intellettuale torinese del gruppo dei Cantacronache, un gruppo che nacque proprio in quella temperie degli anni Sessanta. Il testo è di Italo Calvino: “Per i morti di Reggio Emilia”. A Reggio, proprio nel luglio ‘60, la polizia sparò e uccise dei manifestanti, giovanissimi. I nomi sono messi in fila: Afro Tondelli è morto… per cosa è morto? È morto per riparare al torto di chi si è già scordato di Duccio Galimberti, recita la canzone. Il partigiano Galimberti. Quindi sotto accusa è il calo di memoria sui partigiani, sulla resistenza. C’è l’esigenza di ritrovare la memoria. Per quel pochino che vale, in grazia di questa canzone chiamai mio figlio Duccio, come omaggio a questo bisogno di memoria.
A proposito di memoria. Tutti ancora dicono che la caduta del governo Prodi fu colpa sua. Sente questa colpa?
Ma no, assolutamente, è una delle scelte di cui vado più intellettualmente orgoglioso, perché con quell’atto noi provammo a disvelare ciò che stava accadendo, cioè la trasformazione della sinistra in partito liberale. Maastricht è il monumento all’accettazione di un paradigma opposto – non solo alla rivoluzione, ma anche alla riforma – che è l’accettazione del modello capitalistico fondato sulla competitività delle merci, a cui sacrifica tutto, compresa la spesa sociale. Il governo Prodi fa della costruzione della legge di bilancio una cartina di tornasole, in questo senso. Quale strada si doveva imboccare nella costruzione dell’Europa politico-istituzionale? Se ne presentavano due: una, quella che poi diventerà egemonica, che prenderà poi la forma del blairismo, quindi un’impronta liberale e spesso in politica liberista, costruita sulle compatibilità del sistema che Maastricht decide, ovvero che il debito è il problema principale e che le compatibilità sono l’accettazione dei vincoli. Qual è il paradigma della nuova politica economica che il centrosinistra di Prodi sceglie? L’accettazione del vincolo esterno, cioè la scelta delle compatibilità a scapito del vincolo interno, cioè i bisogni e il soddisfacimento dei bisogni. In piccolo, naturalmente, in scala, la finanziaria deve scegliere e sotto la pressione esplicita della Confindustria, il governo Prodi sceglie questa strada. Ne esisteva un’altra possibile? Sì. Era quella su cui stava lavorando faticosamente, contraddittoriamente, ma ci stava lavorando, il governo francese guidato da Lionel Jospin che, infatti, aveva varato una legge sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità del salario. Che cosa era precisamente? Sabbia nell’ingranaggio di Maastricht. Tu vuoi impormi il vincolo esterno e io ti faccio vedere il vincolo interno. Noi proponiamo, appunto, di fare massa critica con questa ipotesi jospiniana, Prodi fa la scelta contraria. Quindi, diciamo così, davvero ci abbiamo visto lungo, semplicemente. Aggiungo poi che non è vero che la nostra scelta apre la strada al governo Berlusconi. Dopo la nostra rottura, per la prima e unica volta un ex comunista va al governo. Il governo che ci succede non è quello di Berlusconi, ma di D’Alema. E non casualmente, il governo che succede fa la guerra perché condividerà la scelta della guerra nei Balcani. Quindi, dopo di noi viene un governo di guerra, non Berlusconi. È un governo di guerra guidato da un uomo che veniva dalla sinistra. E quasi si riassume in quel poco tempo l’immagine della metamorfosi.
Perché ha scelto di lasciare la politica?
Per due ragioni. La prima, importante è che abbiamo perso. Noi proviamo con l’arcobaleno a fare resistenza all’aria del tempo. Non era semplicemente un episodio. Perdiamo. La seconda ragione è che io ho sempre creduto che l’età fosse una condizione importante nella vita politica. La politica intesa come militanza è fatica, è impegno, e energie portate fino all’estremo. Devi avere una vigoria fisica. Io credo davvero che ci sia un tempo per tutto. E il tempo dell’impegno diretto, cioè della militanza a tempo pieno, quello si stava concludendo.
Ma non aveva avuto il sentore che dopo di lei non ci sarebbero state queste figure che avrebbero potuto traghettare la sinistra?
Le figure si trovano se c’è la politica, è finita la politica, e io penso che si sottovaluti in generale l’elemento di destrutturazione che è intervenuto nel passaggio dalla sinistra del movimento operaio alla sinistra liberale. In questo passaggio sono morte due cose essenziali per la politica: la costruzione del popolo, Gramsci, la politica come costruzione del popolo, e gli strumenti fondamentali della politica a partire dal partito. I leader forti vengono su da partiti e passioni forti.
Questo è il tempo della guerra…
In quale parte dell’Occidente quale classe dirigente se dovesse scrivere una costituzione europea, che sarebbe una condizione elementare per la sua nascita – non rinascita: nascita – scriverebbe come articolo primo l’articolo 11 della Costituzione Repubblicana, cioè “l’Europa ripudia la guerra”? Chi lo scriverebbe? Il problema della politica è ritrovare chi lo scriverebbe. E lo può ritrovare nella pratica politica, sociale. Quando Capitini avvia la Perugia-Assisi, con il consenso di militanti comunisti e tanta parte di cattolici, quello è un fenomeno minoritario, possiamo chiamarlo di testimonianza, ed è questo che oggi manca insieme all’analisi. La capacità di riprovarci, anche in minoranza: quello che è necessario è la rottura. Le due “R” oggi sono assolutamente Radicalità (senza radicalità non si fa niente) e Rottura, rottura con il paradigma dell’esistente, quel ricominciare da capo vuol dire che stai fuori, inutile dire – adesso facciamo l’alleanza con questo con quello, il centrosinistra, cambiamo la direzione politica, questo, quello… Io rispetto moltissimo queste convinzioni, ho molti amici a cui sono molto affezionato, hanno tutti il mio rispetto, ma non ci credo per niente a quelle tattiche, sono certo che non si possa passare se non per una rottura di fondo, che dica “io sto fuori” da questo quadro, e sto fuori da questo quadro economico, sociale, politico e istituzionale. Provo a costruire altro, a partire da che cosa? Dal conflitto. E se parto dal conflitto allora posso ad esempio usare delle parole, in politica, altrimenti impedite: disarmo, sono contro qualunque forma di organizzazione militare dell’Europa, perché sono per fare dell’Europa una potenza di pace, che si rivolge invece che agli imperi, ai popoli, alle culture che stanno fuori dagli imperi, che sono le grandi religioni a partire dalle parole del Pontefice che non casualmente usa la parola disarmo, oppure forme di organizzazioni internazionali come i Brics, oppure uno sguardo ai Sud del mondo, in termini di investimento politico, di relazioni, mantenendo forte la barra del post colonialismo invece di approdare al neo colonialismo delle tante forme che vediamo in corso, di un’Europa che viene costruita come una fortezza, che ha come nemico in basso gli immigrati e in alto i potenziali aggressori quando non esistono. Riarmo ed esclusione, la fortezza Europa. Tu non puoi stare dentro per riformarla, perché ne sarai assorbito e perderai la connessione sentimentale con il popolo che deve essere formato dall’ipotesi pacifista. Il tuo inno deve diventare. Le dèserteur di Boris Vian, il disertore, io non ci sto. Senza questa radicalità non rinasce la sinistra, se vuole chiamarla così
La sua esperienza nel sindacato.
Quella è una grande storia, piena di grande nostalgia, è una storia che ha reso la mia vita significativa, insieme all’amore per mia moglie, per la famiglia, la gamba fondamentale è stata il sindacato. C’è una formula di Rosa Luxemburg che dice che non c’è solo la vittoria, io ho avuto la fortuna di vivere una stagione piena di vittorie, pensa agli anni 70, pensa che in Francia il maggio dura qualche mese, qui da noi l’autunno caldo dura quasi dieci anni. Abbiamo conquistato tanto e abbiamo pensato che fosse possibile conquistare tutto e ci siamo andati vicini, poi abbiamo perso. Poi abbiamo perso, ma anche nella sconfitta abbiamo imparato: per me la sconfitta si manifesta con i 35 giorni alla Fiat, e con la sconfitta di quella pagina straordinaria di lotta operaia: comincia lì la sconfitta, anche con la politica, sempre per la radice di classe. Ma diceva Rosa Luxemburg “ci sono delle sconfitte che valgono di più di cento risoluzioni del comitato centrale del partito”, appunto, ed io la penso così.
Contento della sua vita? Ha rimpianti?
Sono contentissimo della mia vita. Sono stato molto fortunato. Non ho rimpianti…beh poi ritorniamo sempre lì: se avessimo vinto in quei 35 giorni, ma non dipendeva da noi. Noi ce l’abbiamo messa tutta e anche con molta intelligenza.
L’avversario politico di cui ha avuto più rispetto?
(Dopo qualche secondo di silenzio e sospiri)
Sto cercando un alto borghese… (silenzio ancora). Se le dico un nome a lei non dice niente e nemmeno a chi ci legge…
Beh, lo dica così lo imparo io e chi ci legge.
È quasi paradossale quello che le sto dicendo. Era Mortillaro, il capo di Federmeccanica, secondo il linguaggio corrente e anche il mio, un falco, un uomo di un’intransigenza assoluta, un avversario implacabile. Anche lui avrebbe detto “vogliamo tutto” da parte dell’impresa, ma forse questa sua intransigenza me lo faceva molto rispettare, il fatto che proprio ti rispettava come persona, ma ti avrebbe distrutto come controparte per far vincere la sua. E questo, secondo me, nell’antagonismo totale, nell’avversione totale alle sue idee, alle sue proposte, alla speranza di poter contro le sue proposte vincere con la lotta, la persona mi induceva rispetto.