L'altra mente del Manifesto

Storia di Ursula Hirschmann, l’ebrea senza patria che scrisse il Manifesto di Ventotene

Nell’animo più segreto c’è la sicurezza che nessuna rottura è ineluttabile ma avviene per sbaglio, nasce dal voler comprendere e ricomporre dopo che si è stati offesi e cacciati

Cultura - di Redazione Web

21 Marzo 2025 alle 14:00

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Foto Archivi storici dell’Unione Europea
Foto Archivi storici dell’Unione Europea

Stralci del libro “Noi senza patria”, Ursula Hirschmann, Il Mulino, Bologna, 2022

Giorni fa, in una riunione politica, ho capito di colpo perché per me sia tanto più facile essere «europea» che per gli altri. Dovevo parlare e mi sono accorta che non avevo nemmeno più una lingua a mia disposizione. L’italiano che parlo da tanti anni mi è rimasto sempre estraneo; non ho mai voluto addentrarmici troppo per non perdere la mia lingua: il tedesco. Eppure l’ho persa; anni di amorevole conservazione me l’hanno resa incolore e rigida, come accade con i ricordi. Questa mancanza di lingua non è tutto: non sono italiana benché abbia figli italiani, non sono tedesca benché la Germania una volta fosse la mia patria. E non sono nemmeno ebrea, benché sia un puro caso se non sono stata arrestata e poi bruciata in uno dei forni di qualche campo di sterminio.

Mi vien fatto di pensare a un nostro amico belga e ebreo, di vivissima e irritante intelligenza, che anche lui è un «europeo errante» come me. Viaggiava un giorno con due piccoli borghesi francesi, marito e moglie, e parlava contro il nazionalismo con quella veemenza libertina con cui può parlare solo un déraciné. La piccola francese gli ribatté, con una punta di malignità: «Pour vous c’est facile d’être européen; vous êtes juif». (Facile essere europeo, siete ebreo). Il nostro amico se ne è offeso profondamente (anche perché si offende volentieri e trae nuove forze dalle sue umiliazioni), ma la piccola francese aveva perfettamente ragione. Già Marx ha detto che gli operai sfruttati avrebbero preso su di loro la lotta contro i capitalisti perché non avevano nulla da perdere fuorché le loro catene (e infatti, da quando sono diventati, in questo secolo, comproprietari dello Stato e avrebbero perciò parecchie cose da perdere, la loro lotta si è affievolita alquanto). Noi deraciné dell’Europa che abbiamo «cambiato più volte di frontiera che di scarpe» – come dice Brecht, questo re dei deracinés – anche noi non abbiamo altro da perdere che le nostre catene in un’Europa unita e perciò siamo federalisti.

Ho una figlia forte e volitiva e che ha il senso, molto italiano, di non voler fare «brutta figura». E’ in molte cose l’opposto di me e soffre quando – secondo lei – faccio «brutta figura» io. Io invece non me ne accorgo perché nel mio repertorio morale non c’è il senso delle «questioni d’onore» o dell’«amor proprio». Non ho mai nemmeno ben capito che cosa siano queste cose. Qualche tempo fa mi è capitato un caso assai caratteristico: per ragioni illogiche un’amicizia tra me e un’altra persona ha cessato di esistere. Non ne avevo colpa e ho cercato di riavvicinare la persona. Ho avuto la porta sbattuta in faccia. Non ho voluto crederci e mi accingevo nuovamente a «spiegare la vera situazione» all’amico perduto. In quel momento sopraggiungeva mia figlia. Era indignata con me: perché non m’ero accorta dell’offesa che mi era stata fatta, perché insistevo, perché non volevo riconoscere l’’«ineluttabilità» della rottura. Mentre l’avevo davanti a me, bella nel suo sdegno e con quel realismo vigoroso che viene prima dell’esperienza, i miei pensieri andavano indietro, ai tempi e luoghi lontani della mia gioventù.

Avrei voluto spiegarle perché ero diversa da lei. Ma da dove cominciare? Da tanti, tanti anni addietro, quando in Germania avevo amato il paese e i suoi poeti di quell’amore confidenziale che si ha per le cose che ci sono intorno nell’infanzia? Quel Mörike, per esempio, con le sue poesie pazze di bellezza, chiuse in un mondo piccolo come un guscio di noce. O cominciare da più tardi: dal descrivere l’esperienza del mio incontro con gli operai del partito socialista, negli anni dal ‘31 al ’33? La loro forza e la loro intelligenza, i loro giudizi sobri e la loro solidarietà. Non ho più conosciuto niente di così puro, e ancora oggi la parola Heimat mi fa pensare anzitutto alle buie strade di Berlino Nord, con le case alte e strette, e dentro, la sera, le camere illuminate, dove mio fratello e io andavamo ad ascoltare le parole sulla liberazione dell’uomo e ci lasciavamo guidare da questi uomini dalla morale sicura e disinteressata. Poi tutto questo si è rotto, prima di colpo con la fuga, poi in lunghi anni di attesa, dapprima impaziente, in seguito sempre più diluita.

Da allora cerco di ritrovare la Germania, il mio paese. Quando si è perso tutto, un mondo intero, o «i tratti si induriscono» oppure si lavora per tutta la vita a ricomporre nella loro iniziale figura le cose che sono andate rotte. Perché nell’animo più segreto c’è la sicurezza che nessuna rottura è «ineluttabile» ma avviene per sbaglio. Ecco l’atteggiamento che dà fastidio a mia figlia: questo voler comprendere e ricomporre dopo che si è stati offesi e cacciati. È lo stesso fastidio che prova la gioventù israeliana verso i padri che si sono lasciati deportare e uccidere quasi senza rivolta. Anche loro avevano nell’animo più segreto il senso che tutto avvenisse per un terribile sbaglio, e questo senso impediva l’erompere della rivolta. Chi di noi non ha sognato una volta in quei terribili anni di trovarsi fra quattro mura a tu per tu con Hitler – o chi per lui – per «spiegargli» da uomo a uomo quali erano i suoi «sbagli»?

E non c’è, d’altra parte, nella mia generazione, gente più triste da incontrare di quei tedeschi che hanno cancellato la Germania dai loro cuori. Gente che non vuole più parlare e sentire parlare in tedesco, che odia i tedeschi come i nazisti odiavano gli ebrei, povera gente che per salvare l’«onore» ha buttato via l’anima. Dico «nella mia generazione» perché quel che in noi ha qualcosa di falso e cattivo nella generazione dei figli non ha più quel substrato di odio ricambiato e può essere un senso di fierezza nato dalla felicità. Ma noi possiamo soltanto amare. Non per bontà, non per senso religioso, ma perché è l’unico nostro modo di restare nella realtà. Perché Mörike c’è sempre e non possiamo seppellirlo, e nessun Eichmann ce lo può togliere. Perché anche in Brecht ritroviamo quei momenti di poesia perfetta, chiusi in un mondo piccolo come un guscio di noce. Perché sono sicura che vi sono ancora da qualche parte quegli operai gravi e giusti, privi di egoismo e grandi nel sacrificio, che ho conosciuto a Berlino nel ‘31-‘33.

21 Marzo 2025

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