Una scuola inclusiva non è retorica, è fatica
Senza questa fatica non può emergere la realtà fatta di nuovi volti che chiedono di essere compresi. La scuola ha bisogno di parole sincere
Politica - di Maurizio Fabbri

Com’è noto, la scuola italiana ha alle spalle una tradizione classista ed elitaria il cui obiettivo principale era la formazione della classe dirigente. Una scuola escludente ed esclusiva dunque, molto più che inclusiva, pensata per “pochi e buoni”. Una scuola tendenzialmente incompatibile con i principi e i valori della carta costituzionale, che per molto tempo ha rallentato il processo di democratizzazione della società. Non a caso, i ritardi della scuola italiana sono emersi con forza nel quadro dell’Unione Europea, in particolare quelli legati al permanere di profonde contraddizioni fra territori (in particolare tra Nord e Sud) e fra indirizzi scolastici (in particolare tra licei e professionali). La diagnosi che ne deriva è, ancora oggi, quella di un Paese ferito, incapace di sanare antiche disuguaglianze.
Non meno antico e anacronistico è il rinnovarsi di una narrazione, oggi sempre più pervasiva, che dipinge un’immagine fortemente idealizzata delle scuole e delle università del passato: il refrain “una volta era meglio” accompagna i discorsi di genitori e insegnanti, quando non anche degli studenti e delle studentesse, ai quali pare di ravvisare una formazione più debole nei diplomati e laureati degli ultimi anni, rispetto a quelli di un decennio prima. Ovviamente, si tratta di narrazioni per lo più infondate, che non tengono conto dei radicali mutamenti antropici, che attraversano la condizione umana del nostro tempo su scala planetaria. Come affrontare trasformazioni così radicali, senza essere costretti a ristrutturare le conoscenze veicolate dalle generazioni precedenti? Come divenire cittadini del mondo, senza rinunciare a parte di quei saperi che erano maturati nel processo di costruzione delle identità nazionali? Molti giovani oggi sono soli nel confrontarsi con questo nuovo ordine di priorità, e risultano tanto più condannati alla solitudine quanto più inseguiti da adulti disadattati, che continuano a rimpiangere le presunte grandezze del passato.
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Essere inclusivi in questo momento storico significa innanzitutto aprire le porte della scuola ai mutamenti in atto: mutamenti linguistici, culturali, sociali, etici, religiosi, relazionali, che danno senso all’emergere di una differente condizione umana, sempre più ampia e plurale, sempre meno prevedibile e singolare. Il suo tratto distintivo è quello di un’evoluzione storica, che ha reso possibili processi di evoluzione senza precedenti, riconducibili a un’unica parola chiave: “emancipazione”. Ma a questi mutamenti ora se ne aggiungono altri, meno facilmente riconoscibili e interpretabili. I giovani del nostro tempo, con le loro fragilità, l’emergere di differenti bisogni educativi, cosiddetti “speciali”, sono indicativi di un’evoluzione sottile, fors’anche imponderabile, che potenzia la sensibilità, trasformandola in ipersensibilità, che spalanca gli sguardi, aprendoli anche a ciò che non si vorrebbe vedere, che fa tremare le menti, impedendo loro di recepire troppo in fretta parole, che, per essere comprese, devono risultare meno astratte e più allegoriche, più vere e meno retoriche.
Ogni retorica, per il fatto stesso di essere tale, può essere solo escludente, anche se pronuncia parole d’inclusione; la scuola ha bisogno di parole sincere, di “verità”, che raccontino la fatica dell’inclusione, poiché, senza questa fatica, non può emergere la realtà dell’inclusione medesima. E la realtà oggi è fatta di nuovi volti, che chiedono di essere compresi e salvati e ci offrono in cambio una inedita possibilità di salvezza: quale? Quella di non rubare loro il futuro che, in passato, è stato donato a noi.
*Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G.M. Bertin” Alma Mater Studiorum Università di Bologna