La miniserie tv dedicata al poeta

Chi era Giacomo Leopardi, il “Poeta dell’infinito” raccontato in una serie da Sergio Rubini

Tutt’altro che depresso, il letterato che prende vita sullo schermo tv rifugge dai luoghi comuni sul suo conto, mostrando la sua vena irriverente e festosa spesso trascurata da tanti paludati saggi accademici

Spettacoli - di Filippo La Porta

24 Gennaio 2025 alle 18:30

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Photo by Gian Mattia D’Alberto/LaPresse
Photo by Gian Mattia D’Alberto/LaPresse

L’operazione tentata da Sergio Rubini con la fiction Rai su Leopardi (Poeta dell’infinito) – liberarlo dalla polvere scolastica e rilanciarlo come icona pop – è temeraria ma legittima. Temeraria perché se vuoi fare un film su Leopardi (come, che so, su Dante o Manzoni) sbagli comunque, tanta è la complessità irriducibile dell’autore. E al tempo stessa legittima, e anzi il film di Rubini mi sembra encomiabile, perché equivale comunque a un saggio critico certo parzialissimo, discutibile, tendenzioso, etc., ma di estrema freschezza e fondato su una aderenza filologica agli scritti del poeta di Recanati. Vorrei dire ai suoi stroncatori: ma almeno vi ha fatto venir voglia di leggere Leopardi? Da quanto scrivete sembra che lo ignoriate.

Qual è la intuizione fondamentale di Rubini e dei due sceneggiatori Carla Cavalluzzi e Angelo Pasquini? Potrei riassumerla così: Leopardi – qui rappresentato nella sua infermità fisica ma senza le due gibbosità da scoliosi – era disperato ma non disperante. Tutt’altro che un “depresso”! Riteneva che tutto è nulla, un “solido nulla”, ma amava la vita, la bellezza, la poesia, l’amore, le donne, l’amicizia, il gioco, la musica, la gloria letteraria, i sorbetti. La sua poesia, in quanto canto, esprime un’approvazione della vita. In essa l’ultima parola non è della morte.

Ma anche il suo pensiero è attraversato da continue e felici aporie. Convinto come Sade che il mondo è creazione di un Dio malvagio, che la natura crea distruggendo, che un giardino in fiore è in realtà un ospedale dove tutti si divorano a vicenda. Tuttavia, al contrario di Sade (che teorizzava il delitto e la distruzione), favorevole a una “social catena” (nella Ginestra), ad una solidarietà fra tutti gli esseri umani contro il nemico invisibile che si annida nel nostro comune destino, fragilità e caducità. E odiava più di tutto l’affettazione, l’ipocrisia, l’esibizionismo, l’impostura, il cinismo degli italiani (che ritrae in un saggio antropologico ancor oggi attuale): qui in particolare smaschera il borioso Tommaseo, un personaggio forse troppo macchiettistico, con le sue arie da erudito.

La miniserie di Rubini, forse più ispirata nella parte sull’infanzia, dove Leopardi – il bravissimo Ettore Cardinali – somiglia molto al Mozart di Milos Forman, incline alla burla e alla trasgressione (un’attitudine che ritroviamo nelle sue satire e parodie), si sposta poi sull’età adolescente e adulta, dando una assoluta centralità agli amori del poeta: dalla cugina Gertrude di Pesaro (la scena in biblioteca, con un bacio mancato per un soffio, ha l’incanto di un film di Truffaut) alla nobildonna Fanny Targioni Tozzetti, amante dell’amico Ranieri, ma ci fa intravedere i palpiti amorosi verso il poeta di Marianna Brighenti, cantante lirica figlia dell’editore liberale che aveva pubblicato Leopardi e poi “infame” spia degli austriaci.

Siamo prossimi al feuilleton popolare, e al melodramma a forti tinte, ma d’altra parte Leopardi amava l’opera lirica, e come qui apprendiamo Donizetti (presente nella colonna sonora con Anna Bolena e L’elisir d’amore) volle musicare alcuni suoi versi (l’altro musicista scelto da Rubini, Schubert, sta invece a rappresentare lo struggente intimismo romantico). Qui troviamo l’altra originale idea degli autori. Leopardi era fin da bambino un geniale “falsario”, capace di imitare e riprodurre qualsiasi testo antico, in greco o latino, e farlo passare per autentico (chissà che lo sceneggiatore Pasquini non si sia ricordato dei falsi del Male, il giornale satirico che fondò negli anni ‘0 insieme ad altri)! E anche abilissimo a imitare la passione amorosa: scriverà di nascosto, come Cyrano, le bellissime lettere a Fanny firmandole Antonio Ranieri! Poi l’amico commenterà che loro hanno solo eseguito un copione teatrale scritto da Leopardi. Dove finisce la recita? Anche noi nelle nostre vite eseguiamo un copione. Questo ci costringe a ripensare il concetto di autenticità che coincide non tanto con l’”essere stessi” quanto con la recita su un copione che almeno ci scriviamo da noi. Il racconto della triangolazione amorosa è di grande finezza.

Strano solo che Rubini, nella sua icona trasgressiva e vagamente libertaria del poeta, non ci abbia messo l’oppio, il suo “dolce letargo” nel quale, notava Leopardi, “si vorrebbe stare per l’eternità”. Mentre un elemento che attraversa le due puntate è l’avversione alla chiesa, al clero, alla liturgia: la decadenza per Leopardi comincia con il cristianesimo, con il dominio della ragione, di una insensata volontà di verità che tende a deprimere le forze vitali, la felicità del corpo. In ciò anticipa di vari decenni Nietzsche, ma senza la pesanteur e la magniloquente oratoria del filosofo: le Operette morali, in cui pure Leopardi arriva a dire che “tutto ciò che esiste è male”, conservano una leggerezza poetica che evoca il teatro e la danza. Politicamente non era né liberale né tanto meno reazionario (aveva infiammato i cuori con le poesie patriottiche): anzi proprio il nucleo impolitico del suo pensiero, scettico verso ogni “cammino della Storia”, costituiva qualcosa di eversivo. Nella rivista progettata con Ranieri, censurata prima di essere pubblicata, stende un elogio di tutto ciò che è inutile, frivolo, non funzionale!

Rubini ha il merito di aver messo in immagini – entro scenografie volutamente artificiali, di cartapesta, come i fondali di un’opera lirica – la vitalissima ambivalenza di Leopardi. Per definirla, concettualmente, bisogna ricorrere infatti al paradosso, o all’ossimoro: “materialismo romantico” (definizione dello studioso Mario Rigoni)? Sognante nichilismo? Pessimismo cosmico che contiene un enigmatico sorriso? Dolcissimo naufragio nel nulla? Si tratta di contraddizioni che non trovano mai una sintesi dialettica. Possiamo soltanto viverle, così come in una delle scene finali della fiction Leopardi dice che bisogna pur vivere la vita. Se “tutto è degno di riso fuorché il ridere di tutto” (Zibaldone, ma su questo torna nel Dialogo di Evandro e Eleandro) allora anche la visione più lucidamente impietosa dell’esistenza non rinuncia ad una possibile letizia, da condividere con gli altri. Solo uno spirito onestamente disilluso è capace di amare davvero l’illusione, lo spazio immaginativo dell’infinito, il profumo della ginestra nel deserto che ci tocca attraversare.

La natura non tanto va analizzata e commentata dai filosofi – in sé non ha nulla di logico – quanto “sentita”. Per capire e anzi sentire Leopardi suggerisco – sulla linea pop della miniserie – di leggerlo ascoltando non solo Donizetti ma anche un blues, genere malinconico che sembra inverare la definizione di Victor Hugo della malinconia (“gioia di essere tristi”). Lo sguardo dell’attore Leonardo Maltese – insieme rassegnato e festoso, afflitto e capace di stupore, quietamente distaccato (con gli amici progressisti del Circolo Vieusseux) ma aperto al mistero della realtà, disincantato e innamorato della bellezza – ci avvicina a Leopardi più di tanta pletorica saggistica accademica.

24 Gennaio 2025

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