La rubrica Sottosopra

L’università deve tornare al servizio del popolo

Tocca agli studenti, insieme ai docenti consci del proprio ruolo di educatori, e a quei precari, che hanno il coraggio di non rinunciare alla loro dignità, lottare perché l’università si sottragga alla tagliola degli interessi oligopolistici e sia realmente “a servizio delle masse popolari”.

Editoriali - di Mario Capanna

8 Dicembre 2024 alle 09:00

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Foto di Cecilia Fabiano/LaPresse
Foto di Cecilia Fabiano/LaPresse

Credo fermamente che l’università non debba essere una torre d’avorio, dove pochi intellettuali si ingegnano a raggiungere vette sempre più alte di conoscenza, senza mai condividere con il mondo che preme ai suoi confini.
(M. Yunus)

È in corso un ridimensionamento delle università italiane, già da tempo sottoposte a dimagrimento progressivo. Nella legge di bilancio del governo di destra è previsto un taglio di mezzo miliardo per gli atenei e la ricerca, e un decurtazione ulteriore di 200 milioni all’anno per il prossimo triennio. Contro il depauperamento annunciato si è già alzata la protesta della Crui (la Conferenza dei rettori delle università italiane). I tagli preannunciati gonfiano il sottofinanziamento delle nostre università e scuole rispetto a quelle dell’Ue – 1% del Pil contro l’1,5% della media Ocse. (Nota bene… : mentre si lesina su una materia così fondamentale, si fa un gran parlare, da noi e in Europa, di aumentare la spesa militare al 2% del Pil!).

È ovvio che a risentirne è la nostra capacità competitiva in Europa (figuriamoci – in proporzione, s’intende – rispetto agli Usa, alla Cina ecc.). Infatti l’Italia continua ad essere il fanalino di coda nell’Ue per quanto riguarda il rapporto tra la quota di laureati e la popolazione: 20% contro il 27% della Francia, il 32% della Germania, il 33% della media Ocse. Questi dati mostrano che la transizione dall’università di élite a quella di massa è avvenuta in misura decisamente parziale. Per certi aspetti l’università di oggi, da noi, è tornata ad essere peggio di quanto fosse prima del Sessantotto (a riprova che le lotte per il miglioramento non devono fermarsi mai). Da noi abbiamo un docente ogni 21 studenti, contro i 17 della media Ocse; il 56% dei docenti è over 50, contro il 40% della media Ocse; le donne docenti son il 38%, mentre la media Ocse è il 43%.

Oltre a ciò, passi indietro sono stati compiuti in termini di autoritarismo (molti cattedratici sono tornati ad essere… baroni… autoreferenziali e dispotici), di aumento ampio di precariato, di crescita di influenza negli atenei da parte di apparati finanziari, industriali e persino bellici. La percentuale di lavoro precario nel corpo accademico è passata dal 18,5% del 2010 al 45,3% nel 2024: in pratica quasi metà della forza lavoro è costituita da precari i quali, gravati dalla spada di Damocle della sempre incerta riconferma, non hanno tranquillità d’animo nell’esercizio dell’insegnamento e nel campo della ricerca scientifica. Tutti fattori, questi, che fanno la fortuna delle università telematiche, le quali non sono precisamente vocate nel campo della ricerca.
Particolarmente scivolosa si è rivelata… l’invenzione dell’autonomia delle università. È ovvio che, intesa come capacità di autogestione interna in raccordo con una effettiva partecipazione democratica, l’autonomia avrebbe potuto rappresentare una spinta positiva.

Senonché: dai ministri Ruberti, Luigi Berlinguer, Gelmini e i successivi l’ “autonomia” è stata intesa in senso marcatamente neoliberista, soprattutto come possibilità e capacità di ricercare finanziamenti privati che, ovviamente, non sono gratis, ma finalizzati a tornaconti precisi. Questa questione specifica è venuta a galla con forza in tempi recenti, in concomitanza con la carneficina praticata da Israele contro i palestinesi. Quando gli studenti universitari italiani, insieme a quelli americani ed europei, si sono mobilitati a sostegno dei legittimi diritti dei palestinesi, hanno scoperto, e denunciato, vari accordi di cooperazione fra i nostri atenei e quelli israeliani. Quasi sempre si trattava di protocolli fra università e aziende di sviluppo tecnologico dual use – tecnologie sviluppate per fini civili che contemporaneamente vengono impiegate per scopi militari. Emblematico il caso del Politecnico di Torino: gli studenti hanno scoperto che industrie belliche come Leonardo, Alenia, Thales avevano all’interno della struttura universitaria sedi operative, uffici e persino laboratori.

Si tratta, con ogni evidenza, di un terreno estremamente scivoloso: se l’università ha un forte finanziamento pubblico di base, può contrattare da posizioni di forza il reperimento di fondi privati; al contrario sarà condizionata dalla intrinseca inferiorità di partenza, che la rende succube (se non ricattabile) alle centrali finanziarie e industriali. La logica neoliberista non è certo finalizzata a trasformare il sistema economico a servizio delle persone; all’opposto mira ad adattare e omologare le persone al sistema economico-finanziario. Per questo direi che oggi, come non mai, è vitale operare perché le università diventino luoghi di costruzione del pensiero e del sapere liberi e critici, di integrazione fra discipline diverse, di scambi molteplici fra culture, di relazioni numerose e vere, di approfondimento culturale e scientifico contro la guerra e per la pace nel mondo. Caposaldi delle visione olistica, capace di interpretare la complessità della realtà e di cambiarla in meglio.

Tocca agli studenti, insieme ai docenti consci del proprio ruolo di educatori, e a quei precari, che hanno il coraggio di non rinunciare alla loro dignità, lottare perché l’università si sottragga alla tagliola degli interessi oligopolistici e, come si diceva un tempo, sia realmente “a servizio delle masse popolari”. Non si tratta dell’infantile pretesa di… ripetere il Sessantotto. Dinanzi alle nuove contraddizioni occorre qualcosa, addirittura, di più e di meglio.

8 Dicembre 2024

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