In difesa di Nadia Urbinati
Perché in America ha vinto Trump e il governo dei peggiori: così Marx ci fa capire il successo del tycoon
La politologa, docente della Columbia University, è stata attaccata dai giornali di destra per aver indicato il filosofo della lotta di classe come un mezzo di ricerca teorica delle cause della crisi della democrazia odierna
Editoriali - di Michele Prospero
Solo per aver indicato nelle pagine di un classico ancora urticante come Karl Marx una possibile via di ricerca teorica attorno alle cause profonde della odierna crisi della democrazia, Nadia Urbinati ha attirato su di sé le gentili attenzioni dei fogli più estremisti. Libero ha titolato: “I compagni riesumano perfino il vecchio Marx”, bollando la professoressa della Columbia University come una studiosa che “di politica non capisce granché”. Gli agenti della polizia liberale al servizio del governo hanno addirittura messo a verbale che Urbinati “si è formata nelle anguste sezioni comuniste dell’Emilia”.
E vabbè, queste sono le sofisticate cose risorse filosofiche e d’archivio che la destra in cerca di egemonia riesce a maneggiare. Nel suo articolo, Urbinati aveva suggerito di esplorare i passi del Moro sulla disgregazione della Seconda Repubblica francese. L’accostamento è acuto poiché, con il trionfo di Trump, gli Stati Uniti hanno per certi versi sperimentato qualcosa che somiglia molto al loro 18 brumaio. Un personaggio politicamente mediocre, un clown grottesco e pieno di precedenti penali con la fama dell’avventuriero, sedusse il popolo francese. Dopo aver conquistato l’Eliseo, stabilì un collegamento diretto tra l’imperatore e la massa attraverso lo strumento magico del plebiscito. Non meno bizzarro di “Napoleone il piccolo” pare oggi il Presidente-tycoon dal ciuffo arancione, che balla spesso in pubblico e straparla collocandosi sempre al di fuori della ragione politica. Ha trasformato le elezioni in un referendum per ottenere il condono del suo tentativo di colpo di mano ed edificare, sull’onda popolare favorevole a un irregolare, un potere personale pervasivo.
L’evento, a partire dalle nomine dell’amministrazione appaltate agli esemplari più torbidi di una sorta di “governo dei peggiori”, ha poco a che fare con un normale ricambio di classe politica. Sprovvisti di un ceto politico adeguato alla gestione della difficile stagione post-americana, secondo una persuasiva visione di sistema, gli interessi imprenditoriali accordano il mandato irresistibile ad una maschera istrionica capace di una rappresentazione sopra le righe. Come attore perennemente in scena, nel copione della sua recita Trump non è inchiodato ad una coerenza programmatica e può quindi mescolare le promesse di difesa degli ultimi con l’imperativo della deregulation dei primi. In qualità di ricco assai fortunato, per giunta coadiuvato dall’uomo più facoltoso del pianeta, malgrado le apparenze egli ha la pozione segreta per ammaliare la middle class in declino che, abbagliata dallo splendore del denaro, concede carta bianca a un tipo come Musk.
Grazie alla manovalanza dei nuovi media, che a comando costruiscono in rete il senso comune indiscutibile e ad arte manipolano la consapevolezza individuale delle esperienze, la Casa Bianca sta per essere occupata da una coalizione che con la sua miscela di plutocrazia e cachistocrazia strapazza le forme, il prestigio delle istituzioni. Da parte di chi vaga nel degrado sociale, inseguendo il miraggio di qualche protezione, l’aureola del salvatore è conferita proprio a colui che si vanta di licenziare in blocco gli esuberi via mail e propone di tagliare di ben 2 trilioni di dollari il bilancio federale con la sepoltura di ogni traccia di welfare. Un esponente di spicco della cricca trumpiana, Peter Thiel, ha messo sul tavolo la vera posta in gioco del test americano. Sergio Fabbrini ha riportato sul Sole 24 Ore una frase emblematica del fondatore di PayPal, a detta del quale il capitalismo e la democrazia devono finalmente cessare il loro rapporto conflittuale sancendo un divorzio definitivo, perché la procedura elettorale e i diritti costituiscono una diseconomia in confronto alla pura logica competitiva del profitto.
Tramite le tecnologie digitali le colossali proprietà dei mezzi di comunicazione influenzano, falsificano, orientano. L’intreccio di quattrini e canali mediatici spalanca una mitica ora “X”, che viene acciuffata per monopolizzare il potere in virtù del controllo delle coscienze e della percezione dei bisogni. Consultare Marx è d’obbligo per inquadrare il problema della ciclica tentazione di imboccare la strada della momentanea barbarie quale rimedio più conveniente rispetto alle lungaggini della rappresentanza. Dinanzi al nodo della relazione tra autocrazia e capitalismo emerge una differenza interpretativa tra Engels e Marx.
Per Engels, l’appuntamento con il capo illiberale che sfigura le libertà è una faccenda che prima o poi coinvolgerà tutte le democrazie. La tesi di Marx, invece, è che una contrazione autoritaria e populista segna una eccezione destinata in conclusione ad urtare con alcune regolarità del moderno: la società civile, il pluralismo, l’opinione pubblica, il regime dei contratti non sopportano il consolidamento di una potestà eccentrica, imprevedibile e repressiva. Per questo, magari dopo una sciagura bellica contro cui qualsiasi credo nazionalista finisce per sbattere, la collettività espunge il cesarismo come un insostenibile corpo estraneo.
Finché il popolo regala il consenso ai programmi massimi di Stato minimo, non si pongono questioni urgenti di sospensione della legalità. Tuttavia con Trump si apre uno scontro dall’esito non preventivabile tra una vocazione dispotica sorretta dal voto e gli scricchiolanti contrappesi istituzionali. Senza un’autonomia politica del mondo del lavoro lo stesso capitalismo paga la scomparsa del soggetto di classe con il grave malessere esistenziale delle democrazie.