Dibattito sul salario minimo
Cosa è la lotta di classe, la sinistra la riabbracci per rinascere
La vicenda del salario minimo ha riportato nel dibattito la nozione di sfruttatori e sfruttati. Il governo sta con gli sfruttatori, e va bene. Ma il Pd? Da quanto tempo non fa qualcosa per gli sfruttati?
Editoriali - di Paolo Franchi
Più passa il tempo più mi convinco che la forza della destra-destra al governo del paese – e scrivo paese con la minuscola, perché come mi spiegava a Rinascita il grande Bruno Schacherl il Paese con la maiuscola era Paese Sera – risieda soprattutto nella debolezza, per non dire nell’irrilevanza, di una sinistra sprovvista non tanto di programma, perché in politica i programmi sono chiffons de papier come i trattati per la Germania guglielmina, quanto piuttosto di radici, di identità, verrebbe da dire, di un’anima.
Ne sono così convinto che, per apparente paradosso, tendo a sopravalutare qualsiasi segnale, anche modesto, vada in controtendenza, nella speranza, purtroppo regolarmente smentita, che forse la sua anima smarrita la sinistra possa in qualche modo ritrovarla. È il caso, clamoroso, del salario minimo.
Avrei mille e una critica da avanzare su come l’opposizione ha condotto, nei mesi scorsi, questa sacrosanta battaglia, l’unica su cui si è ritrovata unita, ma le tengo per me. Perché martedì alla Camera la maggioranza ha provveduto come meglio non poteva fare a mettere in chiaro la sostanza delle cose, e l’opposizione ha dovuto prenderne ufficialmente e quasi solennemente atto. Lo ha già scritto benissimo Piero Sansonetti, ma vale la pena di ripeterlo.
Se chi governa ricorre a un sotterfugio in Parlamento per cassare un provvedimento che garantisce un salario minimo di 9 euro all’ora (più o meno 1150 euro netti al mese) ad ogni lavoratore, è giusto accusarlo di pirateria parlamentare, ma solo a condizione che si spieghi perché i deputati della maggioranza hanno accettato di indossare, nonostante il Carnevale sia ancora lontano, i panni dei pirati.
La ragione è molto, molto semplice, e l’opposizione non ha potuto fare a meno di denunciarla. Chiamata a scegliere tra la difesa degli sfruttati (anzi: dei supersfruttati) e quella degli sfruttatori, la destra-destra, che pure tra la povera gente di vecchio e nuovo conio voti ne ha presi tanti, non ha avuto dubbi: ha scelto gli sfruttatori.
Quando ho sentito Elly Schlein pronunciare queste parole, che non appartengono alla sua storia e alla sua cultura, non mi è tornato alla mente Karl Marx. Ho pensato, invece, a Pietro Ingrao e a Emanuele Macaluso, che nella geografia politica del Pci erano agli antipodi.
A Ingrao che si indignò quando un titolo dell’Unità definì per la prima volta “esuberi” dei lavoratori non ricordo bene se licenziati o licenziandi, perché ciascuno di quegli “esuberi” non era un numero, ma aveva un nome, una vita, una storia, che non potevamo ignorare senza perdere noi stessi.
A Macaluso, l’unico esponente della destra comunista a portarsi appresso non come una ingiuria ma come un vanto l’appellativo “migliorista”, che in uno dei suoi ultimi interventi, con la sua flemma, ironica e auto ironica, di togliattiano di Sicilia, annotò: “La lotta di classe non va sopravalutata, ma nemmeno sottovalutata. Semplicemente, la lotta di classe esiste”.
Non una maggior giustizia sociale, non l’ attenzione agli ultimi, e neppure solo quella cosa pure tanto importante che chiamiamo solidarietà con i più deboli: la lotta di classe.
Poi, visto che sull’Unità avete meritoriamente riportato all’onore delle cronache Vasco Pratolini, sono andato a cercare su youtube Metello, 1970, regia di Mauro Bolognini, con Massimo Ranieri e Ottavia Piccolo, una vicenda della Firenze proletaria di fine Ottocento vista dalla parte dei proletari.
Lo ho trovato, lo ho visto, l’ho trovato molto bello e mi sono pure commosso, perché la storia di quel giovane operaio edile che scopre sul campo, con l’ingiustizia, il sindacato e il partito fa parte, con la lotta di classe, di una più grande storia democratica e civile di cui chi l’ha vissuta portando anche solo la sua pietruzza dovrebbe andare fiero, non scusarsi.
Infine, mi sono detto che forse, magari per via della vecchiaia, stavo esagerando, tirare fuori di questi tempi la lotta di classe, che pure è tutt’altra cosa (Metello docet) dall’invidia sociale e dal rancore manettaro e magari pure controproducente.
Un vecchio amico e compagno francese, che ho conosciuto tanti anni fa socialdemocratico e che socialdemocratico è ancora, mi ha ricordato il revisionista Leon Blum, primo ministro del Fronte Popolare. Che, giudicando l’espressione “lotta di classe” sovraccarica di significati rivoluzionari, preferiva parlare, da riformista, di “azione di classe”.
Beh, ho concluso pensando che Emanuele e chissà, forse anche Pietro sarebbero d’accordo con me, di una sinistra “materialista” che facesse proprio un simile concetto mi accontenterei senza farmene problemi.
In primo luogo perché questo significherebbe la (ri)scoperta che le classi, o più semplicemente gli interessi organizzati, primi tra tutti quelli del capitale e del lavoro, esistono, si riconoscono per tali e tali restano sia, è ovvio, quando apertamente confliggono sia, dovrebbe essere ovvio anche questo, quando si accordano, in nome dell’interesse generale, sulla base di un compromesso, la cui qualità e la cui durata in ultima analisi sono dettate (chissà perché oggi mi scappano tante brutte parole) dai rapporti di forza.
Su un compromesso di questa natura era fondato, nei Trenta Gloriosi, quel Welfare State che la mia generazione ricorda come un’età dell’oro a quanto pare irripetibile, anzi, letteralmente impensabile per chi è arrivato e ancor più per chi arriverà dopo di noi.
E a guardar bene non stavano su un altro pianeta, per restare in Italia, né il dirigismo fanfaniano né le ambizioni riformatrici dei socialisti al tempo del centro-sinistra (“Da una parte sola, dalla parte dei lavoratori” era ai tempi dell’autunno caldo e dello Statuto dei diritti il motto, per nulla retorico, del ministro socialista del Lavoro Giacomo Brodolini) né la strategia delle alleanze, in primo luogo con i “ceti medi produttivi”, faticosamente praticata dai comunisti.
Conosco l’obiezione principale, secondo la quale tutta questa è roba stravecchia, preistoria, perché nella società liquida dell’individualismo di massa, in cui alla grande fabbrica pensiamo solo in termini di archeologia industriale, e i lavoratori che scioperano con la Cgil spesso votano per la Lega o Fratelli d’Italia, non ha più senso parlare di classi, né sociologicamente né, tanto meno, politicamente.
Si potrebbe contro obiettare che anche tra le star del capitale finanziario c’è chi non la vede così, e non ne fa mistero (“È in corso una guerra di classe, ma è la mia gente, la gente ricca, che la sta facendo, e stiamo vincendo”, diceva già nel 2006 “l’oracolo di Omaha” Warren Buffet), e che Eric Hobsbawm si chiedeva come mai tanti grandi capitalisti avessero con il marxismo più dimestichezza di molti leader della sinistra.
Capisco, però, che queste possono apparire, e forse in effetti sono, civetterie intellettuali: meglio stare ai fatti, che anche nella società liquida continuano ad avere la testa dura.
E i fatti ci dicono che Giorgia Meloni fa propaganda, sì, ma è nel vero quando ricorda che di salario minimo, in un paese (sempre minuscolo) in cui i lavoratori guadagnano all’anno 3700 euro in meno della media europea e 8000 in meno dei tedeschi, e al lavoro povero e precario sono dannate soprattutto, anche se non solo, le nuove generazioni, non si sono occupati mai né i governi di centro-sinistra né il governo rosso-verde né il governo guidato da Mario Draghi.
Di più. Se avesse un minimo di memoria storica, la, anzi, il presidente del Consiglio potrebbe anche rinfacciare al Pd di essersi gagliardamente negato sin dal suo atto fondativo (Torino, Lingotto, 2007) all’idea stessa che ci potesse essere un qualche contrasto di interessi tra datori di lavoro e lavoratori.
A queste e ad altre consimili contestazioni, certo, si può provare a sottrarsi nascondendo la testa sotto la sabbia, e facendo, a propria volta, propaganda, buona al massimo per qualche apertura dei telegiornali. Oppure si può (e, secondo me, si dovrebbe) provare a prendere il toro per le corna.
Cioè a rendere esplicita nei fatti, ma pure nelle affermazioni di principio, una svolta profonda, politica e culturale, rispetto a questa storia recente, senza la quale è impossibile cercare di scriverne una nuova e diversa e prima ancora, più prosaicamente, costruire un rapporto reale (qualcosa in più di una raccolta di firme …) con i soggetti di cui si prendono le difese.
È vero, nel ceto politico della sinistra italiana nemmeno si intravedono i possibili protagonisti di una simile impresa. Ma ci sono frangenti in cui, avendo sin troppo chiari tutti i perché del pessimismo della ragione, è il caso di rintracciare in se stessi un minimo almeno di ottimismo della volontà, o più semplicemente provarsi a battere il chiodo finché è caldo, e poco importa se lo abbiamo arroventato noi o il nostro avversario. Ed è uno di questi momenti che stiamo vivendo.