La pellicola sulla giustizia del grande attore
“Giurato numero due” è l’amaro testamento di Clint Eastwood: il miraggio di una giustizia giusta
A 94 anni suonati Eastwood racconta la storia di un giovane accusato d’aver ucciso la compagna, con un passato violento che si è messo alle spalle. La verità dell’aula non è la verità, e forse la verità semplicemente non c’è...
Spettacoli - di David Romoli
Non ci sono cattivi in Giurato numero due, il grande film sulla giustizia che Clint Eastwood ha diretto a 94 anni dimostrando di non aver perso un colpo con l’avanzare degli anni. Non ci sono polizotti razzisti o colmi di pregiudizi, giudici prevenuti, giurati pigri, pubblici ministeri pronti a tagliare teste senza farsi troppe domande pur di fare carriera, avvocati difensori poco interessati perché poco pagati. Sarebbe troppo facile. Vorrebbe dire che la giustizia c’è, la bilancia potrebbe davvero trovarsi in perfetto equilibrio se a falsarla non fossero gli interessi, le passioni e gli errori del materiale umano.
Ma qui di quelle deviazioni c’è poca traccia. L’imputato accusato di aver ammazzato la compagna ha un passato violento ma se lo è chiaramente lasciato alle spalle e si capisce bene che amava davvero la vittima, pur in un rapporto manesco e violento da entrambe le parti. Il colpevole non è turpe: è un bravissimo ragazzo onesto, con una bella famiglia, un futuro davanti che meriterebbe in pieno di vivere, colpevole in realtà solo di essersi trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. L’avvocato difensore sarà pure d’ufficio ma conosce il mestiere e lo fa con perizia e passione. Il pubblico ministero è una donna in carriera, pronta a buttarsi in politica, ma non al punto di dimenticare che il suo mestiere è cercare la verità prima e più dei voti. Se la giustizia sfugge, se appare impossibile raggiungerla, se si configura come un dilemma senza sbocchi solari che costringe a scegliere tra diversi vie oscure nessuna della quale neppure somiglia alla giustizia è perché la giustizia stessa forse non esiste, o se esiste è molto più complessa di quanto la retorica degli altissimi princìpi non faccia credere.
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In un certo senso Juror 2 racconta una realtà opposta a quella che metteva in scena 12 Angry Men, il capolavoro di Sidney Lumet del 1957 rimasto da allora e sino all’uscita del film di Eastwood insuperato come film sulla giustizia e sulle dinamiche che la inceppano. Lì 11 giurati prevenuti, condizionati dalle loro esperienze o dalla temperie culturale forcaiola, conformisti o semplicemente pigri erano pronti a condannare a morte un innocente. Il dodicesimo è l’unico a insistere sull’esistenza di un ragionevole dubbio. Pretende un supplemento di riflessione e insiste sino a convincere uno dopo l’altro tutti gli altri.
Quella di Lumet era una denuncia dei limiti della giustizia americana in un’epoca ancora fortemente condizionata dal clima isterico della caccia alle streghe. Le indagini erano state superficiali. Il caso era stato dato per risolto e chiuso con fretta eccessiva. I giurati, soprattutto, non assolvevano al loro compito, tutti tranne uno, col dovuto e necessario rigore. Eppure era un film fondamentalmente ottimista. Una vera e perfetta giustizia c’era, si trattava solo di inseguirla con determinazione e onestà e seguendo quella barra anche un solo giurato su 12, dunque anche una piccola minoranza animata da buona volontà e forza interiore, può rovesciare la situazione, impedire che al delitto faccia seguito una anche peggiore forma di ingiustizia operata da chi dovrebbe invece garantire l’opposto esatto.
Qualcosa di simile c’è anche nel film di Clint Eastwood: le indagini sbrigative, il peso del pregiudizio. Ma qui l’elemento è secondario perché quel che interessa il regista non sono tanto gli errori che impediscono alla giustizia di funzionare ma la possibilità stessa di una giustizia giusta. Juror 2, sceneggiatura originale di Jonathan Abrams, giovane ed emergente, è una storia di dilemmi morali che Clint gira ed esalta con uno stile anche più minimalista del solito e rinunciando a qualsiasi spettacolarità. Funziona anche grazie ad attori tutti perfettamente nella parte, con l’inglese Nicholas Hoult protagonista nella parte del giurato che si trova alle prese con un caso che lo riguarda sin troppo direttamente, Zoey Deutch, sua moglie, e soprattutto una strepitosa Toni Collette nella parte della procuratrice, con ruoli minori ma essenziali di Kiefer Sutherland e di un veterano come J.K. Simmons.
Ma funziona soprattutto perché riesce perfettamente, proprio grazie alla normalità dei personaggi, a restituire in pieno l’enigma di una giustizia impossibile. Il finale resta aperto proprio perché qualsiasi risoluzione il regista avesse scelto di adottare avrebbe implicato una indicazione che Eastwood invece voleva evitare di fornire. Sarebbe stato suggerire cosa è giusto e cosa non lo è o almeno cosa è più giusto e cosa meno, e questo avrebbe comunque comportato una valenza rassicurante. Ma Clint, in uno dei prodotti migliori di una lunghissima carriera, tutto voleva essere tranne che rassicurante.