La testimonianza dal carcere
Noi detenuti liberi, solo se liberi dalla violenza
L’unico modo per il detenuto di scorgere una via d’uscita è che prenda coscienza dei propri errori
Giustizia - di Cesare Battisti
Dopo una serie di incontri con Mauro Cavicchioli, responsabile delle Cec (Comunità educanti con i carcerati) in seno all’Associazione Giovanni XXIII, voglio manifestare la mia intenzione di rendermi utile e con questa Associazione avviare un percorso di collaborazione e reinserimento di ex reclusi affidati alla sua Casa famiglia. Mauro mi ha indotto a rivedere alcuni miei punti di vista riduttivi sul carcere.
Mi riferisco, un esempio, alla tendenza a ricercare per ogni dissesto, anche personale, responsabilità distanti, cause universali, ripieghi che finiscono quasi sempre per servire l’immobilismo. Questo approccio mi faceva sentire impotente di fronte all’attualità del dramma in cui versa la popolazione detenuta. Certe mie opinioni obsolete, atteggiamenti discutibili sono decaduti di fronte al convincimento che sia non solo possibile ma anche necessario riconoscere ora che “Soccorrere chi ha sbagliato è liberante per tanti ed è la via per costruire una società alternativa, nuova, giusta.” Verrebbe da chiedersi: perché io? Quale contributo potrebbe dare un condannato all’ergastolo come me per il conforto di tante persone sofferenti? Quale il mio ruolo insieme a coloro che si impegnano ogni giorno a rimettere sulla giusta via tanti fuorviati? Ai naturali benefici che potrei trarne, incluso il mio reinserimento nella società, si affianca un vissuto fatto sì di errori ma anche di successive correzioni che mi ha consentito di mettere insieme un bagaglio di esperienze che adesso, se potessi, vorrei mettere a disposizione di altre persone che stanno vivendo le mie stesse difficoltà.
Parlando non a caso di esperienze personali e delle successive correzioni di rotta, non posso evitare di ricordare a coloro che mi stanno leggendo che il mio trascorso impegno politico, purtroppo anche criminale, è sempre stato centrato sulla questione carceraria, con particolare interesse all’alternativa al carcere, a un diverso recupero dei devianti spesso provenienti dalle fasce sociali le meno garantite. Ho detto anche “criminale” e con questo sto parlando di me stesso, poiché criminali erano i mezzi impiegati all’epoca e perciò anche le persone che li usavano, nell’insensata illusione di poter attingere quello che poteva essere un nobile obiettivo attraverso l’uso della violenza. Inutile tornare sulle circostanze per cui mi sottrassi all’epoca alla giustizia italiana, ciò che qui importa è che, nel limite delle mie possibilità, durante tutto questo tempo, mi sono impegnato in opere di volontariato e quando possibile nel contesto carcerario e nella sua estensione sul territorio.
Ogni volta che me ne è stata data la possibilità, ho collaborato con associazioni civili o religiose impegnate in questo senso. Se mi permetto di ricordarlo, è solo per ribadire la mia attenzione al dramma delle persone private della libertà e per la difesa e lo sviluppo di un’educazione adeguata e alla portata di tutti. Socrate era convinto che se l’essere umano conoscesse sé stesso, saprebbe distinguere tra giusto e ingiusto. Pensava alla conoscenza di sé come conoscenza del mondo e viceversa. È l’ignoranza che ci allontana dalla giustizia e ci fa diventare violenti. Ben oltre un passato da attivista, la mia sensibilità nei confronti della popolazione detenuta, e di quella probabilmente soggetta a divenirlo, è data innanzitutto dalla mia esperienza di detenuto. In carcere, solo standoci giorni, notti, mesi e anni, si può capire fino in fondo la forza interiore ma anche la disperazione, il bisogno immane dei detenuti di una semplice parola di conforto, di una mano che si tenda a guidarci verso la speranza. Nessuno si salva da solo e la pena non può equivalere a carcere, occorre pensare ad altre forme di esecuzione penale e oggi, finalmente, la legge ce lo permette: se il carcere non risponde alle finalità educative deve essere cambiato in profondità.
Ma è necessario che il detenuto prenda coscienza dei propri errori, solo così scorgerà la via d’uscita, capirà che non tutto è perduto e là fuori c’è chi lo sostiene; e tra questi spero di poter esserci anch’io. I detenuti hanno imparato sulla propria pelle cos’è l’indifferenza e il cinismo, spesso li hanno conosciuti prima di finire in prigione nei quartieri sensibili, nelle periferie abbandonate. Ed è proprio vivendo da vicino le estreme difficoltà delle comunità più disagiate in giro per il mondo che ho imparato a guardarmi onestamente dentro. E solo dopo ho potuto guardare in un altro modo coloro ai quali avevo preteso dare lezioni di vita. È stato interagendo con loro che ho potuto rivedere criticamente il mio passato negativo e poi farne tesoro per trasmettere in modo convincente, specialmente ai più giovani, come la via del crimine sia la più difficile, la più dolorosa, la più ingiusta, anche per i familiari innocenti che piangono la nostra assenza. Grazie per l’ascolto.
*Detenuto nella Casa di reclusione di Massa