La lezione di Turati

E alle carceri ci pensiamo sempre domani: dei cimiteri dei vivi nessuno si preoccupa

Il problema della situazione carceraria non viene negato, ma viene disconosciuto tramite la promessa, del tutto generica, di future soluzioni

Giustizia - di Andrea Bitetto

10 Novembre 2024 alle 14:35

Condividi l'articolo

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse
Foto Mauro Scrobogna /LaPresse

Seguendo la tripartizione di Locke dei diritti fondamentali – vita, libertà e proprietà – l’Illuminismo aveva riformato le sanzioni penali in modo da stabilire un sistema incentrato sulla correlativa privazione della vita (la pena di morte), della libertà (carcerazione), della proprietà (sanzioni pecuniarie).

Il superamento della pena di morte ha richiesto un lungo processo per poter esser condotto fruttuosamente a termine, nonostante le eccezioni di paesi che ancora la prevedono. Dove l’abbandono della pena di morte è stato realizzato il merito deve esser riconosciuto alle istanze umanitarie, anziché alla Dea Ragione che invece, tramite il principio del bene comune, l’aveva legittimata. Non che il bene superiore della vita non venga ancor oggi messo a repentaglio dal sistema sanzionatorio penale: in tutti quei sistemi giuridici, come quello italiano, in cui sia previsto l’ergastolo, la fine della vita è la condizione per la fine della pena. Sulla barbarie dell’ergastolo hanno convenuto tutti, per primi i politici, abolizionisti o meno. Il lugubre gen. Menabrea, che fu anche presidente del Consiglio, sostenitore dell’ergastolo, affermò: «La pena dell’ergastolo, cos’è in sostanza se non la condanna a una morte lenta, a una morte moralmente più dolorosa?».

Quanto al carcere, sono ancora attuali le parole pronunciate da Turati nel 1904, nel suo intervento alla Camera dei deputati “I Cimiteri dei vivi”: «Noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura, la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice […] e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori». Mentre scriviamo, il numero delle persone detenute nelle carceri italiane supera le 62mila unità, in costante sovraffollamento e in condizioni complessive indegne di un paese civile.  Con linguaggio iniziatico e freddamente burocratico, l’Applicativo 15, ovvero il sistema di monitoraggio delle presenze di detenuti, sulla base del quale si valuta la capacità recettiva del sistema detentivo, continua a violare i criteri previsti della sentenza Torreggiani: il requisito di almeno 3 mq a persona viene calcolato al lordo dello spazio occupato dalla branda, dai servizi igienici (che poi si tratta del solo wc) e degli altri miseri arredi. Risultato: il sovraffollamento non viene ridotto ma burocraticamente aumentato.

Quanto alla generale politica penale, il legislatore italiano è passato dalla massima pre-illuminista “consenso o repressione” a quella persino peggiore di “consenso e repressione”: il voto avrebbe richiesto – questo l’argomento – di intervenire contro l’emergenza criminalità, sventolata come un vessillo, con un atteggiamento repressivo. E il problema del sovraffollamento e della conseguente impossibilità prima di tutto materiale di approntare qualsiasi sistema coerente di tendenziale rieducazione e reinserimento del detenuto? La risposta è in linea con la prassi tridentina, altresì nota come tecnica della dilatazione, del pontefice Paolo III, quello che convocò controvoglia il Concilio di Trento e lo fece durare diciott’anni: procrastinare. La soluzione dei problemi viene semplicemente rimandata. Atteggiamento del tutto coerente con quello definito dalla filosofa slovena Alenka Zupančič come “disconoscimento”. Il problema della situazione carceraria non viene negato, ma viene disconosciuto tramite la promessa, del tutto generica, di future soluzioni. Che poi da noi le soluzioni proposte non sono quelle necessarie, ovvero la riduzione dei fatti penalmente rilevanti, la mitigazione delle pene il cui impianto è ancora quello vessatorio e illiberale del Codice Rocco, ma sono quelle che passerebbero attraverso la calce e il mattone: la costruzione di nuove carceri.

Non si curano le cause della malattia, ci si premura solo di costruire forse nuovi ospedali. Esistono almeno due progetti già completi di riforma del Codice penale: quello delle commissioni Pisapia e Nordio, sostanzialmente entrambi coerenti con le esigenze di un diritto penale minimo. Ma oggi quello stesso Nordio preferisce assecondare il panpenalismo tanto criticato da editorialista. James Hillman, nel suo Codice dell’anima, ci ha spiegato come crescere sia discendere. Nel raccontare in parallelo le vite di Judy Garland e di Josephine Baker, Hilmann ci ha ricordato che nella vita esiste l’ascesa e la caduta e non importa il cadere ma come si cade. Lo stesso vale per chi commette un fatto di reato. Il carcere così come è oggi e probabilmente così come non può esser diversamente, impedisce a chi cade di poter restituire, con gesti fattivi capaci di dichiarare il pieno attaccamento a questo mondo, le cose che l’ambiente ci ha dato.

10 Novembre 2024

Condividi l'articolo