Primo al box office

Qual è il significato di Parthenope: mistero o truffa, il film di Paolo Sorrentino divide et impera al cinema

L’hanno chiamata sirena, l’hanno trattata come una metafora e un’allegoria di Napoli, è sicuramente un inno alla giovinezza, una fantasia del tempo che passa. Un film che si abbandona, la possibilità di un'idea di futuro e stupore

Cinema - di Antonio Lamorte

4 Novembre 2024 alle 17:43

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Director Paolo Sorrentino poses for photographers upon arrival at the premiere of the film ‘Parthenope’ at the 77th international film festival, Cannes, southern France, Tuesday, May 21, 2024. (Photo by Andreea Alexandru/Invision/AP) Associated Press / LaPresse Only italy and Spain
Director Paolo Sorrentino poses for photographers upon arrival at the premiere of the film ‘Parthenope’ at the 77th international film festival, Cannes, southern France, Tuesday, May 21, 2024. (Photo by Andreea Alexandru/Invision/AP) Associated Press / LaPresse Only italy and Spain

Mistero o truffa? Come il miracolo di San Gennaro, è l’effetto che fa Parthenope di Paolo Sorrentino nel portare lo spettatore in uno stato di sconcerto, incredulità, a tratti in una lunga attesa, per altri in un’atmosfera fiabesca fino a esplodere in un’emozione pura o in un autentico malumore. Altri passaggi ancora richiamano al grottesco, altri al pittoresco. Divide e ispira, divide et impera, come sempre, l’ultimo film del regista Premio Oscar napoletano che è ancora primo al box office, dominatore dell’1 novembre, con tre milioni e mezzo di euro complessivi sfiorati e otre 640mila soltanto nel primo giorno del mese.

L’hanno chiamata sirena, l’hanno trattata come una metafora e un’allegoria di Napoli, è sicuramente un inno alla giovinezza, una fantasia sul tempo che passa. “È stato meraviglioso essere ragazzi, ma è durato poco”. Ed è tutto questo ma non solo l’ultimo film di Sorrentino presentato al Festival di Cannes, ancora una volta ambientato a Napoli come il precedente È stato la mano di dio. Protagonista Celeste Dalla Porta, Parthenope che in età avanzata è invece interpretata da Stefania Sandrelli. Una donna, femmina, ragazza-profumiera dalla bellezza ammaliante e sempre conquistatrice. Non lascia che sia sempre questa a guidarla e non sembra coerente nelle sue avventure amorose.

Si iscrive ad antropologia, pensa di fare l’attrice, si intrattiene in lunghi dialoghi con lo scrittore John Cheever. Partorita in acqua a Posillipo, è già questa una traccia: quella che porta a Ferito a morte, il romanzo insuperato di Raffaele La Capria che vinse il Premio Strega nel 1961 che gira intorno alle avventure di alcuni giovani della buona borghesia napoletana. Vitelloni all’avventura più o meno come Parthenope a Capri con il fratello Raimondo e l’amico Sandrino. È l’incanto della giovinezza perpetrato in inquadrature lente e panorami melensi come in una lunghissima pubblicità di un profumo girata sugli scoglioni.

C’è spazio anche per la discesa negli inferi della città alla mano del Malessere, un’invettiva contro i napoletani della diva Greta Cool che aggiorna il “fujetevenne” di Eduardo De Filippo e anche questa indigna e diverte, il miracolo di San Gennaro che porta nelle stanze proibite e affabulatorie del Tesoro. Alcuni cambiamenti sono sbalorditivi, altri meglio strutturati. Compaiono Achille Lauro e la vittoria del Terzo Scudetto del Napoli. Sfocia tutto nello stupore, immagini filmiche di altissimo livello che spingono lo spettatore sulle labbra di un segreto e di un enigma: mistero o truffa?

Tutti a chiedersi cosa voglia dire un simbolo piuttosto che un altro, una scena piuttosto che quella precedente. Quale il prontuario, il vademecum per leggere quest’opera sfarzosa, barocca, paracula? Mistero o truffa? Come se a ogni immagine o simbolo sullo schermo debba corrispondere un messaggio, la retorica spicciola sulla città, la morale prêt-à-porter del prodotto culturale alla portata di recensioni da social. È così che il film può diventare “un’esercizio di stile fine a se stesso” o una “pubblicità lunga ore invece che secondi” o dissacrante se non blasfemo, il pretesto buono per invocare il fantomatico Sportello “Difendi la città”. Non che non possa non piacere Parthenope, per carità, anzi.

“Più che arrendersi userei il verbo abbandonarsi, perché sì, Parthenope è un film che si abbandona. Si concentra molto su quest’idea di gioventù spensierata, e la gioventù spensierata presuppone la capacità di abbandonarsi, di sospendere il sé e diventare qualcosa che appartiene a tutti. Essere giovani nella forma più profonda è quello, ed è la cosa che succede nel film. Però può succedere anche dopo, quando irrompe il dolore. Mi piaceva molto l’idea di raccontare una persona, in questo caso una donna, che si abbandona alla vita, alla gioventù, e poi alla città, e poi col tempo all’osservazione, e alla fine del film a un’idea risicata di stupore e di futuro”.

Parthenope è la sensualità del corpo, proibita e anelata, la seduzione esasperata e mai dimenticata, la violenza e l’inevitabilità del destino. È l’inaspettato e l’anormalità che si trovano fuori da noi, non necessariamente nei nostri traumi e nei nostri ricordi, che restituiscono un senso a tutto e al resto. È la sensualità della vita. È giovinezza sperperata e rimpianta, che questa coincida con Napoli o qualche altra sua rappresentazione, è soltanto un caso. O forse no. Che tutto acquisti un senso tramite l’amore anche, o forse no. Che abbia portato tantissimi al cinema, o a disquisire di cinema, o a sospendere il giudizio o a emozionarsi forte, in positivo o in negativo, già è qualcosa.

4 Novembre 2024

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