Il film nelle sale
Il ricordo di Enrico Berlinguer: un leader che amavo perché ci credeva
È uscito ieri nelle sale il film sul segretario del Pci: un momento per ripensare al movimento comunista in Italia e a cosa ne è stato
Politica - di Ilario Ammendolia
Sarò uno dei tanti che andrà a vedere il film su Berlinguer, uno dei tanti che, nella stessa giornata, ha fatto 1.500 km per partecipare al suo funerale, uno dei sindaci che è stato presente con il gonfalone del proprio Comune e la fascia tricolore. Non so se si possa definire “bene” il sentimento che si prova verso una persona che non si frequenta, ma credo di aver approvato affetto verso Berlinguer. Ho divorato i suoi articoli su l’Unità. Ho ascoltato con attenzione i suoi discorsi. Anche a Giovanni XXIII, quello del “discorso alla luna”, della “carezza ai bambini”, della “Pacem in Terris”, ho voluto bene, così come al presidente Pertini o, al presidente Allende.
Ci sono uomini che trasmettono fiducia, serietà, sobrietà, pacatezza. A volte gratificazione o sofferenza. Credo che il loro segreto sia quello di credere fino in fondo alle cose che dicono. Lo leggi nei loro occhi, lo avverti nella loro voce. Berlinguer è stato uno di questi. Nel 1976 convinse quasi 13 milioni di italiani a votare Pci. Non saprei dire se quei voti siano stati gestiti bene o male ma è certo che non produssero alcun serio cambiamento e nessun miglioramento della vita dei classi lavoratrici. Qualcosa certamente mi sfugge della strategia del gruppo dirigente del Pci di quegli anni ma ho dinanzi agli occhi la delusione, il travaglio, a volte, la disperazione dei tanti che hanno lasciato il Partito . Di un milione e mezzo elettori che già nel 1979 non votarono Pci. Probabilmente ci sono più fattori che hanno portato a un tale risultato, ma la causa principale va ricercata nel momento in cui il Pci entrava nell’area di governo, nonostante il popolo comunista ne restava fuori.
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Gramsci aveva teorizzato il Partito come moderno principe che si muove seguendo le leggi della politica, Berlinguer dinanzi al fallimento del “compromesso storico” si attesta sulla “questione morale”. È travagliato, probabilmente, perché consapevole che la questione morale non può essere la strategia di un partito e, tra l’altro, un marxista come è stato Berlinguer sapeva bene che non può esistere una “morale” aldilà del tempo, dei luoghi e della storia. Non vi può essere una morale di Stato e men che meno di partito. I dubbi diventano rughe sul volto del segretario comunista, sofferenza… ma non resa. Berlinguer vuole tempo per ricompattare il suo popolo e portarlo oltre il guado, ma il suo tempo finisce a Padova. Il compito di portare i comunisti aldilà del guado sarebbe stato dei “ragazzi di Berlinguer”, se ci fossero realmente stati.
Invece agitarono, senza averne la credibilità e, ancor meno, il carisma di Berlinguer, la questione morale, rifugiandosi dietro la gigantesca figura di un segretario che non c’era più, e – sempre parlando di questione morale – finirono per accettare la resa pur di entrare nella “stanza dei bottoni”. E questa volta vi entrarono veramente da soli. Accettarono guerre, atlantismo, lottizzazione del potere, ristrutturazione del mercato in funzione dei più ricchi, l’adesione al capitalismo selvaggio. Puntarono su “mani pulite” portando il partito che aveva così tanto contributo alla stesura della Costituzione ad approdare sulle sabbie mobili del peggiore giustizialimo, mettendo in discussione lo Stato di diritto. Si illusero che il blocco politico e sociale che si era fermato intorno a Berlusconi si potesse sfaldare per le “olgiatine”, perché una ragazza lo chiamava “papy” o per il cavallo di Mangano.
Infine, voler far passare i “comunisti” come razza superiore perché ipocriti custodi della questione morale finì col renderli – renderci – antipatici alla maggioranza del popolo italiano. E le elezioni in Liguria lo dimostrano più di trattato. “Amare Berlinguer”, e noi lo abbiamo amato, è riflettere – e non tra iniziati – su tutte le cose che ci siamo detti e su altre che ancora non riusciamo a dirci.