Il dominio delle grandi corporation

Perché bisogna fare attenzione all’intelligenza artificiale, un’arma che falcia i lavoratori

Come ha messo in luce Acemoglou, recente Nobel per l’Economia, l’IA è finora un’opportunità sprecata. Potrebbe migliorare la produttività, ma il capitalismo la sfrutta solo per fare tagli

Tecnologia - di Laura Pennacchi

30 Ottobre 2024 alle 17:00

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Foto Mauro Scrobogna / LaPresse
Foto Mauro Scrobogna / LaPresse

La recente attribuzione del premio Nobel per l’economia a Daron Acemoglu e ad altri è stata commentata con molto favore anche in Italia, soprattutto per gli studi sulle diseguaglianze, su quanto siano aumentate negli ultimi anni e su come possano essere contrastate e modificate. C’è un altro aspetto meritorio dell’opera di Acemoglou da sottolineare, a mio parere ancor più importante e originale: l’attenzione dedicata alla questione della direzione dell’innovazione e alle tendenze evolutive in atto dell’Intelligenza Artificiale, un’attenzione che può essere di grande aiuto nello spiegare alcune debolezze strutturali dell’economia italiana, come la stagnazione della produttività.

Acemoglu ci dice che anche l’Intelligenza Artificiale sta seguendo la stessa strada adottata dalle altre nuove tecnologie, cioè la destinazione dei loro miglioramenti, invece che ad elevamento del benessere generale e ad espansione dell’occupazione, a riduzione dei costi e a risparmio di lavoro che si rivelano in ultima istanza frenanti l’incremento di produttività. L’apparente paradosso è spiegato da Acemoglu con la distinzione tra “produttività media per addetto” (la produzione totale divisa per l’occupazione totale) e “produttività marginale” (“il contributo aggiuntivo che porta un lavoratore in più in termini di incremento della produzione o ricavi per addetto”).

L’una non coincide con l’altra e, soprattutto, la “produttività media” può crescere anche se la “produttività marginale” rimane costante, il che accade quando le nuove tecnologie, invece di potenziare il contributo dei lavoratori alla produzione ed allargare la base produttiva – come avvenne nella lunga fase espansiva ad alto contenuto tecnologico del secondo dopoguerra – vengono utilizzate per espandere l’insieme delle mansioni eseguite da macchine e algoritmi sostituendo i lavoratori che le svolgevano in precedenza. Dunque, quello che conta davvero, per le imprese e per il benessere generale, è far crescere, oltre la “produttività media”, la “produttività marginale”, il che significa che solo applicando l’Intelligenza Artificiale non in opposizione ma estendendo il lavoro e la base produttiva cesserà la stagnazione e la produttività complessiva crescerà.

Acemoglu contesta anche che sia naturale e incorreggibile la tendenza del capitalismo odierno a una specifica “sottogenerazione” di lavoro qualificato, aggravante la frattura tra coloro (pochi) che lavorano con standard adeguati di reddito, di stabilità, di protezione e tutto il resto della forza-lavoro. Al riguardo la visione economica mainstream non propone rimedi efficaci, limitandosi a sottolineare che è il mercato che garantisce l’efficienza e che del mercato va corretta solo l’inevitabile iniquità, mediante la redistribuzione attraverso tasse e trasferimenti. Rispetto a tale visione Acemoglou formula due fondamentali obiezioni: a) la stessa efficienza è spesso compromessa dal funzionamento spontaneo dei mercati, come nel caso del sottoinvestimento in innovazione (causato dal fatto che i suoi benefici si diffondono ben al di là del raggio d’azione della singola impresa innovativa la quale, pertanto, inibisce il proprio interesse a innovare); b) la redistribuzione non è in grado di contrastare dinamiche strutturali, come quella che induce una scarsa generazione di lavori qualificati e “buoni”.

Acemoglou, in particolare, ritiene erronea la presunzione che l’indirizzo già assunto dall’avanzare della intelligenza artificiale – tutto a risparmio di lavoro e con impieghi esclusivamente destinati a riconoscimento facciale, trattamento linguistico, ideazione di algoritmi sostitutivi della cognizione umana, invece che a soddisfare bisogni sociali insoddisfatti quali l’istruzione, l’educazione, la cura – sia l’unico possibile, come se fosse naturalisticamente determinato. E mette sotto scrutinio l’evoluzione delle tecnologie contestando: a) l’andamento inerziale che porta a basarsi esclusivamente sugli avanzamenti esistenti; b) la pressione che le grandi companies – non mercati anonimi – esercitano sulla modellazione delle tecnologie; c) la sottovalutazione da parte imprenditoriale dei “buoni lavori” specialmente quando le imprese possono facilmente ricorrere a strategie di risparmio di lavoro e di bassi salari mortificanti in particolare le donne, che alla fine si rivelano controproducenti per la stessa spinta a innovare e per l’incremento della produttività; d) la distorsione di molti degli incentivi fiscali in vigore in favore degli investimenti in capitale piuttosto che in lavoro.

Ecco perché Acemoglu richiede una direzione dell’innovazione intesa non solo come indirizzo e intervento sull’uso che se ne fa una volta che essa sia stata creata, ma anche come spirito ideatore nella fase della sua creazione. Non si tratta, infatti, soltanto di controllare ex post le tecnologie per attutirne ed evitarne distorsioni, pericoli, usi manipolatori, ricadute alienanti, violazioni della privacy. Si tratta di immaginare e ideare ex ante tecnologie e cicli innovativi totalmente alternativi a quelli dominati dalle grandi corporation, senza ritenere il corso dell’innovazione un processo neutrale naturalisticamente determinato e, al contrario, operando per incidere sulla grande “biforcazione” in atto e sfruttarne le “finestre di opportunità”. Abbiamo bisogno di sottoporre a critica sia la “razionalità politica” dell’innovazione, sia la sua “razionalità scientifica”, in particolare la “razionalità dell’algoritmo” con la sua pretesa di corrispondere a una naturalizzazione oggettiva volta a trasformare tutti i fenomeni in stati di necessità chiusi allo spazio dell’alternativa.

30 Ottobre 2024

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