La recensione
Intelligenza artificiale, solo così ci possiamo salvare
Un libro di Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti che funziona come un manuale di sopravvivenza. Basta ricordarsi di Socrate, leggere Sant’Agostino e continuare a pensare e a proteggere “io”. Lei resterà inferiore
Cultura - di Piero Sansonetti
Non sono in grado di riassumere questo libro, perché è troppo complicato e dice troppe cose. Ci introduce al futuro. Un po’ facendoci vedere i fantasmi, un po’ rassicurandoci e ricordandoci chi siamo.
Ecco, quello che ho capito è questo: che gli autori ci invitano a tornare al nostro passato, a leggerlo bene, a interpretarlo, e poi – solo dopo – ad affacciarci al futuro e affrontare il tema dell’intelligenza artificiale. Perché se facciamo il percorso inverso siamo travolti.
“Lei” è più forte di noi sul piano del sapere. Ma noi siamo superiori a “Lei” sul pieno dell’essere. E L’essere viene prima del sapere. Lo condiziona. Purché l’essere sappia di venire prima. Sennò vince “Lei”.
Sto parlando di “Umano, poco umano” (edizioni Piemme, 234 pagine euro 18,90), in libreria da qualche settimana, scritto da Mauro Crippa, uomo Mediaset dove dirige i programmi di informazione, e da Giuseppe Girgenti, professore di Filosofia a Milano.
Il libro non pone la questione nei termini di una sfida tra due entità: l’umano e il poco umano (il titolo del libro è ispirato a un celebre testo di Nietzsche, “umano, troppo umano” interamente dedicato alla crisi esistenziale dell’umanità).
La pone in termini diversi: la sfida che l’essere umano è costretto a lanciare a se stesso di fronte alle nuove condizioni dell’accesso alle conoscenze. Almeno: io così l’ho capito. Mi pare che gli autori non si limitino ad affermare le differenze tra sapere vivente e sapere meccanico, e a non demonizzare – ma comunque a temere – la mescolanza tra questi due saperi e il rischio della scomparsa di un confine: mi pare che invece insistano sulla necessità del recupero, da parte dell’essere umano, della propria autonomia.
Tutto qui: nel momento nel quale affermiamo in pieno la nostra autonomia, la macchina non ha più nessuna possibilità di invaderci: deve misurarsi con noi, trattare con noi, adeguarsi. Si parte da Socrate. Cioè dalla necessità di conoscere se stessi. Non come azione filosofica ma come azione spirituale.
Il libro infatti, alla fine, si condensa nell’indicazione di nove esercizi spirituali necessari per entrare senza paura nella modernità. Socrate spirituale, più che filosofico, perché l’azione che i due autori ci propongono è quella di blindare un nuovo livello di autostima.
E cioè quel patrimonio umano che l’umanità sta perdendo di fronte alla devastante avanzare della tecnologia e al devastante arretrare delle classi dirigenti. (Io, che sono ancora un po’ comunista traduco: di fronte al fallimento della borghesia…).
È un po’ riduttiva questa sintesi del libro. Però a me sembra che la sostanza sia tutta in questa riflessione: finché noi sapremo di non sapere (appunto, socraticamente) mentre la macchina non saprà di sapere, i rapporti di forza sono tutti a nostro favore.
Quando invece noi dovessimo convincerci di una superiorità della macchina, dovuta semplicemente al numero delle cose che sa, e quindi imiteremo la macchina, ci accoderemo alla macchina, cambieremo il nostro modo di pensare per adattarci alla macchina, ristruttureremo la nostra intelligenza perché sia funzionale alla macchina, allora avremo perso. E finiremo sottomessi.
In parte è già così. Gli enormi progressi tecnologici di questo secolo, fin qui, hanno determinato un forte spostamento del nostro modo di sapere e di comunicare. Questo – sembra a me e mi pare che sembri anche agli autori – non ha costituito un progresso della civiltà ma una frenata. E un rischio.
Per la semplice ragione che ha introdotto dei processi di schematizzazione e di semplificazione dello spirito. E se semplifichi lo spirito, semplifichi l’umanità. E se semplifichi l’umanità la rendi poco umana.
Può anche darsi che io di questo libro non abbia capito proprio niente. Ma poco male. Quello che conta – credo – è che io abbia capito della cose che non avevo capito. Poi che siano quelle giuste è del tutto secondario.
E infatti, alla fine di questa breve scorribanda, vorrei riprendere un dettaglio del libro. Il luogo dove si svolse il summit di Bletchley Park (tra creatori delle nuove tecnologie a i leader di tutto il mondo) poco più di un anno fa, è intitolato ad Alan Turing.
Voi sapete chi era Turing? Un grandissimo scienziato britannico, probabilmente il padre inconsapevole dell’intelligenza artificiale. Studiando la matematica e la fisica e i primi rudimenti dell’informatica riuscì a trovare un metodo per decrittare i messaggi dell’esercito tedesco.
Parliamo degli anni 40. Della guerra. Ora voi credete che i principali autori della vittoria sul nazismo siano stati Eisenhower, o il generale Alexander, o Churchill e Roosevelt o Oppenheimer e Fermi che inventarono la bomba atomica. Può darsi.
Ma forse il merito più grande per la vittoria sulla Germania va attribuito a Turing che rese trasparente agli inglesi ogni mossa di Hitler. E sapete cosa successe a Turing dopo la guerra? Fu processato con l’accusa di essere omosessuale.
Si: nella civile Inghilterra degli anni ‘50. E condannato. Gli fu data la possibilità di scegliere: carcere o castrazione chimica. Scelse la castrazione chimica. Cadde in depressione e si suicidò. Non so perché Crippa e Girgenti abbiamo voluto mettere nel libro Turing. Forse proprio per questo. Per farci capire che la scelta non è tra accettare o bandire l’intelligenza artificiale. È tra accettare o bandire Turing.