Il ritratto del ministro
Chi è Alessandro Giuli: ritratto del poliedrico ministro, un “Veltroni della destra”
La cultura è sempre stata considerata più di sinistra che di destra. Il giornalista è tutto e il contrario di tutto, si rifà a filosofie opposte fra loro e a ideologie in contrapposizione
Cultura - di Filippo La Porta
Il discorso francofortese di Giuli, ministro di un governo di destra (che l’altro ieri perfino il regista Francis Ford Coppola ha sentito il bisogno di disapprovare!) potrebbe apparire sconcertante. I suoi contenuti sembrano appartenere alla migliore e più libertaria tradizione della sinistra. Come decifrarlo? Suggerisco allora, spero non irrispettosamente, di utilizzare due figure iconiche di cantautori: Jovanotti e Battiato.
Ma ripartiamo dall’inizio. Se ripassiamo l’intervento di Giuli alla Buchmesse ecco che ci imbattiamo nell’umanesimo di Thomas Mann, Carlo Levi, in Camus, e poi nell’idea di misura, nei valori di giustizia e libertà, nell’universalismo… Potremmo chiederci: è serio esibire questi modelli, dichiarare queste nobili appartenenze, se si è ministri del governo Meloni, e cioè il governo della difesa dei confini come priorità, dell’amicizia fraterna con Orbán, della paura paranoica della sostituzione etnica, della diffidenza per gli stranieri, della storia riscritta per mettere tutti sullo stesso piano (i repubblichini, fantocci dei nazisti) e i partigiani? No, probabilmente non è serio. Quella figura di intellettuale sofisticato che Verrebbe voglia di gridargli da pubblico, dopo il discorso: «Giuli, dì qualcosa di destra». La leggenda, come sappiamo, attribuì a Storace una battuta fulminante in risposta «Ah froci…». Ora, Giuli è un intellettuale sofisticato, ben accetto nei salotti, alieno da ogni populismo becero. Al massimo potrebbe replicare, che so «Prima gli italiani!». Tuttavia non potrebbe dire neanche questo. Cerco di spiegare perché.
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Giuli è un tipico leader postmoderno, potremmo dire un leader “per addizione” (ricordate Veltroni, che era sia comunista che anticomunista?). Continuamente spiazzante. È fascista e antifascista, gobettiano ed evoliano, seguace di Jünger e lettore appassionato di Gramsci, cattolico e neopagano… Interpreta tutti i ruoli previsti sulla scena. Non ce ne è più per gli altri. Dunque proteiforme, inafferrabile. Se te lo trovi davanti, come avversario politico è impossibile venirne a capo. Si dirà: che male c’è a cambiare idea, a compiere un percorso intellettuale irregolare e perfino incoerente? Certo, ma allora la cosa utile da fare è tentare di spiegare i cortocircuiti, l’incompatibilità tra posizioni e tradizioni opposte, e insomma tutta la vitale conflittualità che pure abita la storia delle idee. Ad esempio: il razzismo “spirituale” di Evola, nemico della modernità, il suo concetto metastorico di “tradizione” in che modo sono stati superati – nella formazione intellettuale di Giuli – dall’illuminismo di Gobetti, che voleva portare a compimento l’utopia egualitaria della modernità? Se non ce lo spiega si ha l’impressione di una pappa culturale informe, adattabile ad ogni stagione. Alcuni sottilissimi esegeti hanno voluto leggere tra le righe del discorso di Giuli un messaggio subliminale e quasi in codice, fatto di culti urano-solari, di ambiguo esoterismo e perfino di messaggi massonici.
Vorrei però sottrarmi a qualsiasi estenuazione filologica (e comunque il “pensiero solare” appartiene al Camus de L’uomo in rivolta, al suo pensiero dell’après-midi). C’è anche chi ritiene che Giuli abbia voluto parodiare il linguaggio spesso criptico della sinistra, di Cacciari (i libri, non gli interventi televisivi, invece di didattica chiarezza) o di Agamben. Ma se davvero il suo discorso fosse una intenzionale parodia lui sarebbe un genio della satira culturale, tipo Petrolini o Campanile. Credo invece che per capirlo bisogna ricorrere, come accennavo all’inizio, a quella coppia di cantautori. Da un lato Jovanotti, il suo confuso, generoso, candido ecumenismo capace di mettere insieme Che Guevara e Madre Teresa, Malcolm X e Gandhi, etc. Tutto per riuscire a “pensare positivo”. A obiettargli qualcosa ci si sente dei pedanti guastafeste (una variante impazzita di questo ecumenismo è stato Renzi, che conciliava De Gasperi e gli U2).
Dall’altro Franco Battiato (pensiamo solo alla “ontologia dell’infosfera”! Ci mancano solo le “rinascite fenicie” dell’idea di Europa o la “trasmigrazione di anime assiro-babilonesi” a Bruxelles), e cioè al mix di paccottiglia misticheggiante e visioni New Age, di cicli energetici e appelli a una religiosità misterica, insomma un adelphismo per le masse capace però, nel caso di Battiato, di sciogliersi in canto, in una sublime vocalità. Ora, Giuli si muove nella società-spettacolo, nella politica mediatica, e dunque attinge a tutto ciò che possa far colpo (sia nella cultura alta che nel pop), creare consenso e – gramscianamente – produrre egemonia. Perché Giuli non potrebbe dire qualcosa di destra, e dunque neanche quella mia risposta immaginaria, “Prima gli italiani”? Perché alla fine la cultura è di sinistra! Conclusione certo per lui paradossale.
Che intendo dire? Una cultura di destra esiste, e anche solo limitandoci al ‘900 è tutt’altro che trascurabile: tuttavia credo che gli autori di destra – con il loro nichilismo spesso autodistruttivo, con il loro radicalismo innamorato della catastrofe, vadano certamente conosciuti, “attraversati”, interrogati, ma poi al fine di liberarsene. Occorre rassegnarsi, la cultura è intrinsecamente di sinistra e comunitaria: dall’universalismo di Dante, che riecheggia quello di Seneca (“ho il mondo per patria come i pesci hanno il mare”), all’idea di Spinoza – il filosofo della democrazia radicale -, che ciò cui aspira l’uomo libero è il bene comune, che l’utile è l’utile della collettività, e che l’espansione del singolo è sempre cooperativa.