L'esordio del ministro della cultura
Ministro Giuli ma lei Gramsci lo ha letto?
Al di là dell’omaggio formale a lui rivolto, il giornalista attribuisce al gigante del pensiero sardo intenzioni mai espresse. Dice che la sua teoria ha “un’aspirazione totalitaria”. No ministro, quello è il fascismo
Politica - di Michele Prospero
Lo slogan “Gramsci è vivo” appiccicato da Alessandro Giuli nel titolo del pamphlet uscito per Rizzoli è poco più di un semplice pretesto. L’autore non propone il medesimo eclettismo della Nouvelle Droite, che con movenze acrobatiche vagava in una “perenne ricerca del Gramsci di turno da ibridare con qualche vecchio santino sopravvissuto nel retrobottega delle catacombe nere”. E però l’ambizione, non meno sincretica nel programma, è quella di disegnare “una destra che sia anche una sinistra tricolore”.
Stavolta l’occasione per l’innesto di filoni pur così eterogenei, piuttosto che nei Quaderni (“il pensiero gramsciano è stato una novità dirompente, che trova eco anche nel dibattito attuale”), è rinvenuta nei lavori di ascendenza azionista. Citando qua e là Bobbio e Calogero (“l’apertura al dialogo oggi sembra un discorso di destra”), Giuli reputa di aver abbattuto le antiche barriere divisorie con il campo liberale intransigente, un tempo considerato inaccessibile. Risparmiato a Gramsci l’azzardo di trattarlo “come uno di noi”, le sue pagine vengono tuttavia maneggiate in maniera alquanto pigra per affrontare aspetti di corto respiro, esigenze del momento. La penna del neoministro intende, in particolare, cimentarsi attorno al rapporto che intercorre tra la destra installatasi nella stanza dei bottoni e le casematte del sapere. In un simile sforzo, la riflessione carceraria sul ruolo degli intellettuali si rivela per Giuli ineludibile giacché “parlare di egemonia culturale vuol dire parlare di Antonio Gramsci”.
Insomma è l’analista politico, il sociologo dei processi culturali ad essere interpellato per decifrare la contemporaneità con uno sguardo che penetri oltre la superficie dei fenomeni. “Il filosofo di Ales è ancora oggi – dice Giuli – il convitato di pietra di innumerevoli interviste, talk show, tavole rotonde, convegni: dovunque si parli di politica e cultura, di potere e di intellettuali, di vecchia e nuova destra, è inevitabile il riferimento al teorico del Partito comunista”. Ha successo questo ennesimo tentativo di scavalcare il chiacchiericcio che circonda le ceneri di Gramsci nei molteplici luoghi in cui irrompe il suono monotono dell’opinione pubblica?
Dopo aver reso l’omaggio di circostanza “ai monumentali Quaderni del carcere”, come mappa utile per ricostruire in che modo si affermi una credenza di massa o “oggi potremmo dire: la narrazione prevalente”, Giuli emette la inappellabile sentenza sull’opera invero “presente in tutti gli angoli del pianeta”: al fine di padroneggiare la questione intricata dell’egemonia, “il concetto gramsciano mi sembra invecchiato male, se non addirittura inattuale”. Con la dichiarazione di morte presunta scagliata su una parola chiave del lessico di Gramsci, viene frettolosamente ritirata l’apertura di credito iniziale scolpita in copertina. La sensazione è che il libro di Giuli non sia in grado di esorcizzare, come pure annuncia, “il reflusso di gramscismo improvvisato” e, quando brandisce la poliedrica categoria di “egemonia” per rispondere alle “domande sovrastanti” sul dominio dei sistemi valoriali, mostra di non averla compresa a fondo.
La conquista delle postazioni impegnate nella fucina delle astrazioni racchiuderebbe in Gramsci, questa almeno è la persuasione di Giuli, “un’aspirazione totalitaria”. Si sa, al contrario, che proprio la nozione di “egemonia” postula nei Quaderni una ripulsa verso la vocazione autoritaria alla Gentile, per il quale dittatura ed egemonia sono indistinguibili. Sulla scia di Croce, e nell’ottica di una perlustrazione del pluralismo della società civile, il pensatore sardo precisa che “l’egemonia presuppone un consenso attivo e volontario (libero), cioè un regime liberale-democratico”; e, per corroborare l’assunto, insiste: “tra i tanti significati di democrazia, quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia”. Non avendone ben afferrato l’estensione, Giuli disperde la stessa attitudine descrittiva della locuzione, che finisce liquidata come “una chimera inarrivabile”. Egli è certo del fatto che “l’egemonia culturale di sicuro non esiste più nei termini esposti da Gramsci”, e quindi rinuncia a misurarsi con l’essenziale.
Invece del piagnisteo sulla persistenza di una dominazione ostile sorretta con “il goscismo millesimato costituitosi nei decenni come una casta di mandarini”, avrebbe dovuto forse approfittare dei Quaderni per interrogarsi su un altro tema veramente stuzzicante. «Ci può e ci deve essere una “egemonia politica” anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica». Quest’annotazione di Gramsci suggerisce di fermare l’attenzione sulla faccenda fondamentale: se la “cittadella distrutta e semiabbandonata” rispolverata da Giuli si trasferisce da Colle Oppio a Palazzo Chigi, ciò accade perché i custodi delle “fantasticherie revansciste” hanno egualmente prodotto egemonia – comunque la si voglia designare – e vinto nella modulazione delle passioni collettive.
Dove ha avuto la meglio il racconto della destra nazionalista? La sua infiltrazione è quasi impercettibile nei piani elevati della conoscenza, i quali obbediscono a quelle che Gramsci chiama “le combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali”, ovvero le imperscrutabili dinamiche mondiali di elaborazione delle dottrine. Del resto neppure a Gentile riuscì di suscitare un ascendente superiore a quello sprigionato da Croce: “l’influsso del Croce è meno rumoroso di quello del Gentile ma più profondo e radicato; Croce è realmente una specie di papa laico” (Gramsci). Sprovvista tuttora di attrezzi per insinuarsi con credibilità nella cultura ufficiale, la destra ribattezzata sovranista sconta una perdurante minorità nel sostegno delle professioni intellettuali: gli impiegati, i tecnici, la burocrazia, gli insegnanti sono “portati normalmente a seguire gli universitari, i grandi scienziati per spirito di casta” (sempre Gramsci).
Il suo segreto risiede nella somministrazione di un gergo diffuso capace di captare il senso comune e sedurre i ceti popolari ridotti ormai a schegge atomizzate nel vuoto del moderno principe. Il conservatorismo odierno è stato agevolato, nel compito di attecchimento alle aree interne e periferiche, dalle pratiche del trasformismo, già con lucidità inquadrate nei Quaderni come “l’assorbimento delle élites delle classi nemiche che porta alla decapitazione di queste e alla loro impotenza”. A partire dagli anni Ottanta, infatti, Repubblica si ingegnò a demolire ogni autonomia di ragionamento della sinistra, poi persino il Corriere ha cominciato ad attirare molecolarmente tra le sue file il personale una volta avverso, diventando una sorta di succursale ascoltata di via dei Taurini.
Assai circolante sui maggiori quotidiani generalisti – con gli editorialisti di punta che sono al contempo consulenti governativi –, rinfocolata dai numerosi fogli militanti che controlla, la destra nostrana vanta al proprio servizio la più robusta e disciplinata leva di intellettuali organici. Con il trionfo del talk quale modello di comunicazione politica, il conformismo e il folklore postmoderno hanno finalmente “carta bianca” per fare “piazza pulita” di qualsivoglia idealità di sinistra, fissata per definizione al pilastro della critica.
Appaltata alle reti televisive pubbliche e commerciali la condensazione di un (anti)pensiero unico disposto perfino a riscaldare le ubbie dei camerati in vena di nostalgia, i “patrioti” si preoccupano soltanto di assediare qualunque casella del sottopotere guidati dalla brama di saziare un selvaggio impulso di rivincita. Nella carenza di idee, spetta a Giuli sfornare immagini orfico-tolkieniane che si spingono a veicolare perle di insensatezza: “Siamo figli della terra e del cielo stellato, celeste è l’origine. Le radici nazionali non possono gelare poiché s’immergono in profondità intangibili che travalicano la favola e l’intreccio storico e si saldano nel nostro genius loci meridiano espresso in una lingua universale di assolata Concordia”.
Fresco responsabile del dicastero concepito da Meloni nientemeno che per forgiare “l’immaginario italiano”, Giuli non può scongiurare un effetto bergsoniano di riso allorché si coglie l’abissale distanza tra le vette delle mire letterarie e i bassifondi evocati con i nomi degli individui in carne ed ossa votati al colossale scopo: “Il convegno di presentazione del Distretto si è tenuto nella prestigiosa cornice della Sala della Regina di Montecitorio, con l’intervento di figure di alto profilo istituzionale, il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli e il ministro del Turismo Daniela Santanchè, il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca, il sottosegretario agli Affari esteri Maria Tripodi. E non solo”. Se davvero in giro ci fosse lo spettro di un Gramsci redivivo, non ci sarebbe un titolare della Cultura intento a volare tra i “gabbiani” delusi o a cantare le lodi di una governante balneare. Più che con le casematte, che lui vorrebbe liberare da “una permanente e sonnolenta rendita postprandiale” della sinistra, gli tocca vedersela con le cose matte dei capetti di una fiamma tricolore che comanda nel Palazzo senza però essere per nulla classe dirigente.